Umanesimo Universalista: differenze tra le versioni
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Detto anche [[Nuovo Umanesimo]]. È caratterizzato dalla sottolineatura dell'[[atteggiamento umanista]]. Questo atteggiamento non è una filosofia ma una prospettiva, una sensibilità e un modo di vivere il rapporto con gli altri esseri umani. L'umanesimo universalista sostiene che in tutte le culture, nel loro miglior | Detto anche [[Nuovo Umanesimo]]. È caratterizzato dalla sottolineatura dell'[[atteggiamento umanista]]. Questo atteggiamento non è una filosofia ma una prospettiva, una sensibilità e un modo di vivere il rapporto con gli altri esseri umani. L'umanesimo universalista sostiene che in tutte le culture, nel loro miglior [[momento umanista|momento]] di creatività, l'[[atteggiamento umanista]] pervade l'[[ambiente]] sociale. Vengono così ripudiate la [[discriminazione]], le guerre e, in generale, la [[violenza]]. La [[libertà]] di idee e di credenze assume forte impulso e ciò incoraggia, a sua volta, la ricerca e la creatività nella [[scienza]], nell'arte e nelle altre espressioni sociali. In ogni caso, l'umanesimo universalista propone un [[dialogo]] non astratto né istituzionale tra culture, ma l'accordo sui punti essenziali e la reciproca collaborazione tra rappresentanti di diverse culture, basandosi su “momenti” umanisti simmetrici (vedi [[momento umanista]]). Il panorama generale delle idee dell'umanesimo universalista è delineato nel documento del movimento umanista ( vedi [[umanista, documento]]). | ||
= Conferenza di Silo: Cosa intendiamo oggi per Umanesimo Universalista= | |||
Conferenza presso la Comunità Emanu-el, sede dell'ebraismo liberale in Argentina. Buenos Aires, 24 Novembre 1994 | |||
Ringrazio la comunità Emanu-El ed il rabbino Sergio Bergman per l’opportunità che oggi mi offrono di parlare qui. Ringrazio per la loro presenza i membri della comunità, i correlatori e, in generale, gli amici dell’[[umanesimo]]. | |||
Il titolo della presente dissertazione postula l’esistenza di un [[umanesimo]] universale: ma, com’è evidente, si tratta di un’affermazione che dovrà essere provata. Per farlo bisognerà innanzitutto chiarire che cosa si intenda per “umanesimo”, dato che sul significato di questa parola non esiste un accordo generale e quindi sarà necessario chiederci se l’“umanesimo” sia proprio di una regione del mondo, di una cultura, o se non faccia parte piuttosto delle radici e del patrimonio di tutta l’umanità. Sarà anche opportuno mettere subito in chiaro da dove sorge il nostro interesse per questi temi perché, al non farlo, qualcuno potrebbe pensare che siamo motivati da una semplice curiosità storica o magari da uno sfoggio nozionistico di cultura. L’umanesimo ha per noi il merito speciale di essere non solo storia ma anche progetto per un mondo futuro e strumento attuale d’azione. | |||
Ci interessa un umanesimo che contribuisca al miglioramento della vita, che crei un fronte contro la discriminazione, il fanatismo, lo sfruttamento e la violenza. In un mondo che corre verso la globalizzazione e che mostra i sintomi dello scontro tra culture, etnie e regioni, deve esistere un umanesimo universalista, plurale, basato sulla convergenza. In un mondo in cui i paesi, le istituzioni ed i rapporti umani tendono a destrutturarsi, deve esistere un umanesimo capace di stimolare la ricomposizione delle forze sociali. In un mondo che ha smarrito il senso e la direzione della vita deve esistere un umanesimo capace di creare una nuova atmosfera di riflessione grazie alla quale venga meno l’opposizione irriducibile tra il personale ed il sociale o tra il sociale ed il personale. Ci interessa un umanesimo creativo, non un umanesimo ripetitivo; un nuovo umanesimo che abbia chiari i paradossi di quest’epoca ed aspiri a risolverli. Questi temi, per qualche verso apparentemente contraddittori, verranno trattati in modo più dettagliato nel corso di questo intervento. | |||
Con la domanda: “Che cosa intendiamo oggi per umanesimo?”, stiamo puntando tanto all’origine quanto allo stato attuale della questione. Inizieremo il nostro studio dall’umanesimo storicamente riconoscibile in Occidente, lasciando però aperta la possibilità di portare avanti la ricerca anche in altre parti del mondo dove l’atteggiamento umanista era presente già prima della coniazione di termini come “umanesimo”, “umanista” o simili. Gli aspetti più rilevanti di questo atteggiamento, che costituisce il tratto comune degli umanisti di tutte le culture, possono essere descritti così: 1. Si riconosce all’essere umano una posizione centrale sia come valore sia come preoccupazione; 2. si sostiene l’uguaglianza di tutti gli esseri umani; 3. si accettano e si valorizzano le diversità personali e culturali; 4. si tende a sviluppare la conoscenza al di là di quanto accettato, fino a quel momento, come verità assoluta; 5. si sostiene la libertà di professare qualunque idea e credenza; 6. si ripudia la violenza. | |||
Se ci addentriamo nella cultura europea ed in modo particolare in quella dell’Italia prerinascimentale, risulta che gli studia humanitatis (lo studio delle “materie umanistiche”) erano incentrati sulla conoscenza delle lingue greca e latina e ponevano particolare enfasi sugli autori “classici”. Le “materie umanistiche” comprendevano: storia, poesia, retorica, grammatica, letteratura e filosofia morale. Esse affrontavano questioni genericamente umane, a differenza delle materie proprie dei giuristi, degli studiosi di canoni e leggi e degli artisti, che erano finalizzate ad una formazione specificamente professionale. Ovviamente anche questi studiosi utilizzavano, per la propria qualificazione, elementi propri delle materie umanistiche ma i loro studi erano incentrati di preferenza sulle applicazioni pratiche proprie delle loro rispettive professioni. La differenza tra “umanisti” e “professionisti” si andò accentuando nella misura in cui i primi approfondirono gli studi classici e la ricerca su altre culture; si creò così una sorta di separazione tra la formazione professionale e l’interesse per tutto ciò che era genericamente umano e per le umane attività. Questa tendenza continuò: gli studi degli “umanisti” arrivarono ben presto a toccare campi molto lontani da quelle che all’epoca venivano intese come “materie umanistiche”, ed è così che prese le mosse la grande rivoluzione culturale del Rinascimento. | |||
In realtà, l’atteggiamento umanista si era sviluppato molto prima e di esso possiamo trovare traccia nei temi trattati dai “poeti goliardi” e dalle scuole delle cattedrali francesi del XII secolo. Invece la parola umanista, che designava un certo tipo di studioso, cominciò ad essere usata in Italia solo a partire dal 1538. Su questo punto rimando alle osservazioni di A. Campana ed al suo articolo The origin of the word ‘humanist’ pubblicato nel 1946. Dico tutto questo per sottolineare il fatto che i primi umanisti non si riconoscevano affatto in tale designazione, che entrerà in uso solo molto più tardi. E qui sarà opportuno ricordare come parole affini, quali humanistische (“umanistico”), secondo gli studi di Walter Rüegg, comincino ad essere utilizzate nel 1784, mentre humanismus (“umanesimo”) inizi a diffondersi solo nel 1808 a partire dai lavori di Niethammer. E’ verso la metà del secolo scorso che il termine “umanesimo” circola in quasi tutte le lingue. Stiamo parlando, pertanto, di designazioni recenti e di interpretazioni di fenomeni che furono vissuti dai loro protagonisti in un modo molto diverso da quello ammesso dalla storiografia o dalla storia della cultura del secolo scorso. Questo punto non mi sembra ozioso e vorrei riprenderlo più avanti quando esaminerò i diversi significati che la parola “umanesimo” ha assunto fino ad oggi. | |||
Se mi si concede una digressione dirò che nel momento attuale questo substrato storico persiste ancora e con esso la distinzione tra lo studio delle materie umanistiche che si impartisce nelle università od in istituti specializzati e l’atteggiamento “umanista” definito non dalla direzione degli interessi professionali delle persone che ne sono portatrici ma dal fatto che per esse il fenomeno umano risulta costituire la preoccupazione centrale. Oggi quando qualcuno si definisce “umanista” non lo fa riferendosi ai suoi studi di “materie umanistiche” e, parallelamente, uno studente od uno studioso di “materie umanistiche” non per questo si considera “umanista”. L’atteggiamento “umanista” è quasi generalmente inteso in senso più ampio, quasi totalizzante, al di là delle specializzazioni accademiche. | |||
Nel mondo accademico occidentale si suole dare il nome di “umanesimo” a quel processo di trasformazione della cultura che prese le mosse in Italia, ed in particolare a Firenze, tra la fine del 1300 e l’inizio del 1400 e che, con il Rinascimento, giunse a coinvolgere l’Europa intera. L’umanesimo si caratterizzò per il suo interesse per le humanae litterae (che erano gli scritti che trattavano le cose umane), intese in contrapposizione alle divinae litterae (che si riferivano invece alla divinità). E questo è uno dei motivi per cui ai suoi esponenti venne dato il nome di “umanisti”. Secondo questa interpretazione, l’umanesimo risulta essere stato, alle origini, un fenomeno letterario caratterizzato da una netta tendenza a rivalutare i contributi della cultura greco-latina, soffocati dalla visione cristiana medievale. Va notato come la nascita di questo fenomeno culturale non sia dovuta alla semplice modificazione endogena dei fattori economici, sociali e politici della società occidentale, quanto piuttosto al fatto che questa abbia recepito le influenze trasformatrici provenienti da altri ambienti e civiltà. L’intenso contatto con la cultura ebraica e con quella musulmana e l’ampliamento dell’orizzonte geografico crearono un contesto che incentivò la preoccupazione per l’umano in generale e per la scoperta delle cose umane. | |||
Credo che [[Puledda, Salvatore|Salvatore Puledda]] sia nel giusto quando descrive, nel suo [[Interpretazioni dell’Umanesimo]], il mondo europeo medievale preumanista come un ambiente chiuso, dal punto di vista temporale e fisico, che tendeva a negare l’importanza del contatto, che di fatto avveniva, con altre culture. La storia, dal punto di vista medievale, è la storia del peccato e della redenzione; la conoscenza di altre civiltà non illuminate dalla grazia di Dio non riveste grande interesse; il futuro prepara semplicemente l’Apocalisse ed il giudizio di Dio. La Terra è immobile e sta al centro dell’universo, secondo la concezione tolemaica; il tutto è circondato dalle stelle fisse ed il movimento circolare delle sfere planetarie è dovuto all’azione di forze angeliche. Questo sistema termina nell’empireo, sede di Dio, motore immobile che tutto muove. | |||
L’organizzazione sociale è coerente con questa visione: una struttura gerarchica ereditaria differenzia i nobili dai servi; al vertice della piramide stanno il Papa e l’Imperatore, a volte alleati, a volte in lotta per il predominio gerarchico. Il regime economico medievale, per lo meno fino al secolo XI, è anch’esso un sistema chiuso, fondato sul consumo del prodotto nel luogo di produzione. La circolazione monetaria è scarsa, il commercio è difficile e lento. L’Europa è una potenza continentale assediata poiché il mare, in quanto via di scambio commerciale, è in mano ai bizantini e agli arabi. Ma i viaggi di Marco Polo ed il suo contatto con le culture e la tecnologia dell’estremo oriente; i centri di insegnamento della Spagna, dai quali i maestri ebrei, arabi e cristiani irradiano il sapere; la ricerca di nuove vie commerciali che aggirino la barriera creata dal conflitto bizantino-musulmano; la formazione di una classe mercantile sempre più attiva; la crescita di una borghesia cittadina ogni giorno più potente ed infine lo svilupparsi di istituzioni politiche più efficienti, quali le signorie in Italia, tutto questo insieme di fattori determinano un cambiamento profondo nell’atmosfera sociale e questo cambiamento permette lo sviluppo dell’atteggiamento umanista. Non dimentichiamo che tale processo conosce l’alternarsi ripetuto di progressi e regressi e questo fin quando il nuovo atteggiamento non diventa cosciente. | |||
Cento anni dopo Petrarca (1304-1374) la conoscenza dei classici è quasi dieci volte maggiore che in tutti i mille anni precedenti. Petrarca ricerca e studia gli antichi manoscritti nel tentativo di correggere una memoria storica deformata; hanno inizio con lui la tendenza alla ricostruzione del passato ed un nuovo punto di vista sullo scorrere della storia, allora ostacolato dall’immobilismo proprio dell’epoca. Un altro dei primi umanisti, Manetti, nella sua opera De dignitate et excellentia hominis (Sulla dignità e l’eccellenza dell’uomo), rivendica la dignità dell’essere umano contro il Contemptus mundi, il disprezzo del mondo, predicato da quel monaco Lotario che in seguito divenne Papa con il nome di Innocenzo III. Quindi Lorenzo Valla nel suo De voluptate (Sul piacere) attacca il concetto etico del dolore vigente nella società del suo tempo. E così, mentre il sistema economico e le strutture sociali si modificano, gli umanisti si sforzano di rendere cosciente questo processo di trasformazione producendo un’immensa quantità di opere grazie alle quali l’umanesimo prende forma a poco a poco. Ma l’umanesimo ben presto travalicherà l’ambito strettamente culturale e finirà per mettere in discussione le strutture del potere in mano alla Chiesa ed al monarca. | |||
Numerosi specialisti hanno messo in evidenza come già nell’umanesimo prerinascimentale compaia una nuova immagine dell’essere umano e della personalità umana. Secondo questa nuova concezione, la personalità umana si costruisce e si esprime nell’azione ed è in tal senso che la volontà viene ad assumere un’importanza maggiore dell’intelligenza speculativa. Parallelamente si fa strada una nuova attitudine nei confronti della natura: questa non è più una valle di lacrime creata da Dio per i mortali bensì l’ambiente dell’essere umano ed in alcuni casi la sede ed il corpo della stessa divinità. Questa nuova attitudine favorisce lo studio dei diversi aspetti del mondo materiale e fa sorgere la tendenza a spiegare tale mondo sulla base di un insieme di forze immanenti senza ricorrere a concetti teologici. Da questo deriva un netto orientamento verso la sperimentazione e verso il dominio delle leggi naturali. Il mondo è ora il regno dell’uomo e sta a lui dominarlo grazie al sapere, grazie alle Scienze. | |||
Proprio sulla base di questo orientamento, gli studiosi del XIX secolo hanno annoverato tra gli “umanisti” non soltanto personalità letterarie ma hanno collocato, a fianco di Nicola di Cusa, Rodolfo Agricola, Juan Reuchlin, Erasmo, Tommaso Moro, Jacques Lefevre, Charles Bouillé, Juan Vives, anche Leonardo e Galileo. | |||
E’ noto come molti temi introdotti dagli umanisti abbiano esercitato un’influenza che è andata ben oltre il periodo rinascimentale: essa è infatti rintracciabile negli enciclopedisti e nei rivoluzionari del XVIII secolo. Ma dopo le rivoluzioni americana e francese ha inizio il declino dell’atteggiamento umanista che finisce per scomparire. L’idealismo critico, l’idealismo assoluto ed il romanticismo, ispiratori di filosofie politiche assolutiste, si lasciano alle spalle l’idea che l’essere umano sia il valore centrale e trasformano l’essere umano stesso nell’epifenomeno di altre forze. Questa “cosificazione”, questo”lui” al posto di un “tu”, come farà notare con acutezza Martin Buber, si affermano ben presto in tutto il pianeta. Ma la tragedia delle due guerre mondiali tocca le radici stesse della società e così, di fronte a qualcosa che sembra assurdo, sorge nuovamente la domanda: quale è il significato dell’essere umano? Questa domanda si fa presente soprattutto nelle cosiddette “filosofie dell’esistenza”. Alla fine di questo intervento tornerò sulla situazione dell’umanesimo contemporaneo. Per ora vorrei mettere in risalto alcuni aspetti fondamentali dell’umanesimo e, tra questi, l’atteggiamento antidiscriminatorio e la tendenza all’universalità. | |||
I temi della tolleranza reciproca e quello della convergenza sulla base della tolleranza sono molto cari all’umanesimo e per questo vorrei sottoporre nuovamente alla vostra attenzione quanto spiegato dal professor Bauer nella sua conferenza del 3 novembre scorso. Bauer si è espresso in questi termini: | |||
“Nella società feudale musulmana, in particolare in Spagna, la situazione degli ebrei era molto diversa. Di una loro emarginazione sociale non è possibile nemmeno parlare, così come non è possibile parlarne nel caso dei cristiani. E solo in via del tutto eccezionale potevano insorgere quelle tendenze che oggi chiameremmo “fondamentaliste”. La religione dominante non si identificava con l’ordine sociale nella stessa misura in cui ciò avveniva nell’Europa cristiana. Analogamente, non è davvero il caso di usare termini quali “divisione ideologica”, per quanto esistessero, parallelamente ed in rapporto di tolleranza reciproca, culti differenti. Si frequentavano insieme, senza divisioni, le scuole e le università ufficiali; cosa, questa, inconcepibile nella società cristiana medievale. Il grande Maimonide in gioventù fu discepolo ed amico del filosofo arabo Ibn Roshd (Averroè). E se è vero che, più tardi, gli ebrei e lo stesso Maimonide subirono pressioni e persecuzioni da parte dei fanatici di origine africana che si erano impadroniti del potere nell’al-Andalus, è vero anche che Averroè per loro non era che un eretico per cui non sfuggì alla condanna. In un’atmosfera di questo genere sì che poteva nascere, tanto da parte dei musulmani che degli ebrei, un umanesimo ampio e profondo... In Italia la situazione era simile, non solo durante il breve periodo della dominazione islamica in Sicilia ma anche in seguito e per molto tempo addirittura durante il dominio diretto del Papato. Un monarca di origine tedesca, Federico II di Hohenstaufen, che regnava in Sicilia ed era egli stesso poeta, ebbe l’audacia di dichiarare che il proprio regime era fondato su una triplice base ideologica: la cristiana, l’ebrea e la musulmana e di arrivare a stabilire, attraverso quest’ultima, la continuità con la filosofia greca classica.” | |||
Fin qui la citazione. | |||
Per quanto attiene all’umanesimo nelle culture ebrea ed araba non c’è alcuna difficoltà a rinvenirne le tracce; vorrei limitarmi a riportare alcune osservazioni dell’accademico russo Artur Sagadeev tratte dalla conferenza da lui tenuta a Mosca nel novembre dell’anno passato, dal titolo “L’umanesimo nel pensiero musulmano classico”. Sagadeev ha osservato: | |||
“(...) l’umanesimo nel mondo musulmano poggiava sullo sviluppo delle città e sulla loro cultura. Dalle cifre che seguono sarà possibile farsi un’idea del grado di urbanizzazione del mondo musulmano: nelle tre più grandi città della Savad - ovvero, la Mesopotamia meridionale - e nelle due più grandi dell’Egitto viveva all’incirca il venti per cento della popolazione complessiva. La percentuale dei residenti in città con una popolazione superiore ai centomila abitanti superava, nella Mesopotamia e nell’Egitto dei secoli VIII e X, quella di paesi dell’Europa Occidentale del secolo XIX quali l’Inghilterra, l’Olanda, il Galles o la Francia. Secondo i calcoli più accurati, Bagdad contava a quel tempo quattrocentomila abitanti, e la popolazione di città come Fustat (che in seguito divenne Il Cairo), Cordova, Alessandria, Kufa e Bassora era compresa tra i cento e i duecentomila abitanti. La concentrazione nelle città di grandi risorse provenienti dal commercio e dalle tasse determinò, nel Medioevo, la nascita di una frangia piuttosto numerosa di intellettuali, portò ad una dinamizzazione della vita spirituale e creò una situazione di prosperità per la scienza, la letteratura e le arti. Al centro dell’attenzione, in ogni campo, stava l’essere umano, inteso sia come genere umano che come personalità singola. Va sottolineato come il mondo musulmano, a differenza dell’Europa medievale, non abbia conosciuto una divisione negli orientamenti assiologici tra la cultura urbana e la cultura ad essa opposta, che in Europa era rappresentata dagli abitanti dei monasteri e da quelli dei castelli feudali. I responsabili dell’educazione teologica ed i gruppi sociali che nel mondo musulmano svolgevano una funzione analoga a quelli feudali in Europa vivevano nelle città, dove subivano l’influenza poderosa della cultura che si era formata tra i cittadini musulmani facoltosi. Possiamo farci un’idea di quale fosse l’orientamento assiologico di tali abitanti, prendendo in esame il gruppo di riferimento che tendevano ad imitare, perché incarnava quei tratti distintivi considerati indispensabili in una persona illustre e ben educata. Tale gruppo di riferimento era costituito dagli Adib, persone di vasti interessi, istruite e dotate di profondo senso morale. L’Adab, vale a dire l’insieme delle qualità proprie dell’Adib, comportava profondi ideali di condotta nella vita cittadina e di corte, la raffinatezza e l’umorismo e, per la sua funzione intellettuale e morale, era sinonimo di quel che i greci avevano indicato con la parola ‘paideia’ ed i latini con ‘humanitas’. Gli Adib incarnavano gli ideali dell’umanesimo e nel contempo ne diffondevano le idee, che a volte assumevano la forma di lapidarie sentenze, quali: ‘l’uomo è il problema dell’uomo’; ‘chi attraversa il nostro mare non troverà altra sponda se non se stesso’. L’insistenza sul destino terreno dell’essere umano, così tipica degli Adib, li portava a volte allo scetticismo religioso; anzi, tra le loro fila non mancavano figure assai in vista che ostentavano il proprio ateismo. L’Adab inizialmente indicava le norme di comportamento, l’etichetta, dei beduini; il termine assunse un significato propriamente umanista quando il Califfato, per la prima volta da Alessandro Magno, divenne il centro di interrelazione tra differenti tradizioni culturali e tra differenti gruppi confessionali, il centro che univa il Mediterraneo al mondo indo-iraniano. Nel periodo di prosperità della cultura musulmana medievale, l’Adab attribuì alla conoscenza della filosofia greca antica un grandissimo valore ed assimilò i programmi educativi dei filosofi greci. Per la messa in pratica di tali programmi i musulmani disponevano di enormi possibilità: basti dire che, secondo il calcolo degli specialisti, nella sola Cordova si concentravano più libri che in tutta Europa, escludendo l’al-Andalus. Il Califfato, divenuto centro di influenze reciproche tra culture diverse, mescolando tra loro differenti gruppi etnici, contribuì alla formazione di un altro elemento dell’umanesimo: l’universalismo, ovvero l’idea dell’unità del genere umano. La formazione di questa idea aveva come correlato nella vita reale il fatto che le terre abitate dai musulmani si estendevano dal corso del Volga a Nord fino al Madagascar a Sud e dalla costa atlantica dell’Africa ad Occidente fino alla costa pacifica dell’Asia ad Oriente. Anche dopo la disintegrazione dell’Impero musulmano che portò alla formazione, sulle sue rovine, di piccoli stati comparabili ai possedimenti dei successori di Alessandro Magno, i fedeli dell’Islam continuarono a vivere uniti da una sola religione, una sola lingua letteraria comune, una sola legge, una sola cultura e nella vita quotidiana continuarono ad avere rapporti con svariati gruppi confessionali molto diversi da loro, con i quali ci fu un continuo scambio di valori culturali. Lo spirito dell’universalismo dominava nei circoli scientifici (i ‘Madjalis’) i quali univano musulmani, cristiani, ebrei ed atei che provenivano dagli angoli più remoti del mondo musulmano ma condividevano interessi intellettuali comuni. Li univa quella ‘ideologia dell’amicizia’ che in precedenza aveva unito le scuole filosofiche dell’antichità - quali, ad esempio, gli stoici, gli epicurei, i neoplatonici, ecc. - e che avrebbe tenuto unito, nel Rinascimento italiano, il circolo di Marsilio Ficino. Sul piano teorico, i princìpi dell’universalismo erano già stati elaborati nel quadro del Kalam o teologia speculativa; in seguito divennero il fondamento della concezione del mondo tanto per i filosofi razionalisti quanto per i mistici sufi. Nelle discussioni organizzate dai teologi Mutakallim (i ‘Maestri dell’Islam’), alle quali partecipavano i rappresentanti di differenti confessioni, la norma era dimostrare l’autenticità delle tesi non con riferimenti ai testi sacri, dato che questi non avrebbero offerto ai rappresentanti di altre religioni alcun sostegno per la discussione, ma basandosi esclusivamente sulla ragione umana”. | |||
La lettura di questo brano di Sagadeev non rende merito della ricchezza di un lavoro che ci descrive costumi, vita quotidiana, arte, religiosità, diritto ed attività economica del mondo musulmano all’epoca del suo splendore umanista. Vorrei passare ora ad un’altra opera, anch’essa di un accademico russo, specializzato però nelle culture d’America. Il professor [[Semenov, Sergei |Sergei Semenov]], nel suo saggio monografico dello scorso agosto, intitolato Tradizioni e innovazioni umaniste nel mondo ibero-americano, utilizza un approccio completamente nuovo per la ricerca dell’atteggiamento umanista all’interno delle grandi culture dell’America precolombiana. | |||
Vi lascio alle sue parole: “(...) Possiamo rintracciare nozioni di umanesimo in America centrale ed in America del Sud in epoca precolombiana. Nel primo caso si tratta del mito di Quetzalcoatl, nel secondo della leggenda di Viracocha, due divinità che rifiutavano i sacrifici umani, generalmente di prigionieri di guerra appartenenti ad altre tribù. I sacrifici umani erano comuni in America centrale prima della conquista spagnola. Tuttavia, tanto i miti e le leggende indigene che le cronache spagnole ed i monumenti della cultura materiale dimostrano come il culto di Quetzalcoatl, che compare negli anni 1200-1100 dell’era precedente alla nostra, sia strettamente legato, nella coscienza dei popoli di questa regione, alla lotta contro i sacrifici umani ed all’affermazione di norme morali che condannano l’assassinio, il furto e la guerra. Stando a quanto narrato da un ciclo di leggende, il governante tolteco della città di Tula, Topiltzin, che assunse il nome di Quetzalcoatl e visse nel secolo X della nostra era, aveva tutte le caratteristiche di un vero eroe culturale. Secondo tali leggende, egli insegnò agli abitanti di Tula l’arte dell’oreficeria, proibì di compiere sacrifici umani od animali ed ordinò che agli dei venissero offerti soltanto fiori, pane ed essenze profumate. Topiltzin condannava l’assassinio, la guerra ed il furto. Secondo la leggenda aveva l’aspetto di un uomo bianco ma non era biondo, bensì di capelli scuri. Alcuni dicono che scomparve nel mare, altri che ascese al cielo avvolto dalle fiamme, consegnando alla stella del mattino la speranza del suo ritorno. A questo eroe si attribuisce l’affermazione in America centrale dello stile di vita umanista denominato ‘toltecayotl’, che fu assimilato non solo dai toltechi ma anche dai popoli vicini che ereditarono le loro tradizioni. Questo stile di vita si basava su una serie di princìpi: fratellanza tra tutti gli esseri umani, ricerca di un continuo perfezionamento, venerazione per il lavoro, onestà, fedeltà alla parola data, studio dei segreti della natura e visione ottimista del mondo. Le leggende dei popoli maya dello stesso periodo testimoniano l’attività di un governante o sacerdote della città di Chichen-Itzà, fondatore della città di Mayapan, chiamato Kukulkan, equivalente maya di Quetzalcoatl. Un altro rappresentante della tendenza umanista in America centrale fu il governante della città di Texcoco, il filosofo e poeta Netzahualcoyotl, che visse tra il 1402 e il 1472. Anche questo saggio rifiutò i sacrifici umani, cantò l’amicizia tra i popoli ed esercitò una profonda influenza sulla cultura delle popolazioni del Messico. In America del Sud troviamo un movimento simile all’inizio del XV secolo. Esso è legato ai nomi dell’Inca Cuzi Yupanqui, che ricevette il nome di Pachacutéc, ‘il riformatore’, ed a quello di suo figlio Tupac Yupanqui, ed all’espandersi del culto di Viracocha. Così come era costume in America centrale, e come già prima di lui aveva fatto suo padre Ripa Yupanqui, Pachacutéc assunse il titolo di dio e si chiamò Viracocha. Le norme morali sulle quali si reggeva ufficialmente la società di Tahuantinsuyo erano legate al culto di Pachacutéc ed alle riforme da lui attuate. Pachacutéc, proprio come Topiltzin, aveva tutte le caratteristiche dell’eroe culturale.” | |||
Termino qui la citazione da un’opera che è, ovviamente, ben più estesa e sostanziosa. | |||
Con la lettura di questi due testi ho voluto mostrare alcuni esempi della presenza di quello che chiamiamo “atteggiamento umanista” in aree geografiche molto distanti tra loro, presenza che evidentemente possiamo rintracciare in certi periodi precisi per ciascuna cultura. E dico “periodi precisi” perché tale atteggiamento sembra ora retrocedere ed ora avanzare secondo un ritmo ondulatorio nel corso della storia ed addirittura scomparire definitivamente, in alcuni casi, in quei tempi senza ritorno che precedono il collasso di una civiltà. Comprenderete che stabilire dei legami tra civiltà per mezzo dei loro “momenti” umanisti è un compito arduo e di grande portata. Se nel momento attuale i gruppi etnici e religiosi si ripiegano su se stessi alla ricerca di una forte identità, questo significa che sta crescendo una sorta di sciovinismo culturale o regionale che minaccia di innescare uno scontro con altre etnie, culture o religioni. Ma la persona che legittimamente ama il proprio popolo e la propria cultura deve poter comprendere che in se stessa e nelle proprie radici è esistito o esiste un “momento umanista” che la rende universale per definizione e simile all’altra che ha di fronte. Si tratta, insomma, di differenze che non potranno essere spazzate via da nessuno. Si tratta di differenze che non costituiscono né una remora né un difetto né un fattore di ritardo ma che, al contrario, sono la ricchezza stessa dell’umanità. Il problema non sta nelle differenze bensì nel come portarle a convergere ed è ai “momenti umanisti” che mi riferisco quando parlo dei punti di convergenza. | |||
Vorrei, per concludere, riprendere il discorso sullo stato della questione umanista nel momento attuale. Abbiamo detto che in seguito alle due catastrofi mondiali i filosofi dell’esistenza riaprirono il dibattito su un tema che sembrava morto e sepolto. Ma questo dibattito partì dall’ammissione che l’umanesimo fosse una filosofia quando in realtà non si trattò mai di una posizione filosofica ma di una prospettiva e di un atteggiamento di fronte alla vita ed alle cose. Se nel dibattito si dette per valida la descrizione dell’umanesimo propria del XIX secolo, non risulta strano che pensatori come Foucault abbiano accusato l’umanesimo di essere un prodotto tipico di quel secolo. Già prima Heidegger aveva espresso una posizione contraria all’umanesimo che aveva considerato, nella sua Lettera sull’Umanesimo, null’altro che un’ennesima “metafisica”. Forse la discussione si basò sulla posizione sostenuta dall’esistenzialismo sartriano che formulò la questione in termini filosofici. Osservando queste cose dalla prospettiva attuale ci sembra eccessivo accettare l’interpretazione di un fatto come il fatto stesso e, partendo da essa, attribuire al fatto determinate caratteristiche. Althusser, Lévi-Strauss e vari altri strutturalisti hanno fatto aperta professione di anti-umanesimo nelle loro opere, così come altri filosofi hanno difeso l’umanesimo intendendolo come una metafisica o quanto meno come un’antropologia. In realtà l’umanesimo storico occidentale non fu in nessun caso una filosofia, neppure in Pico della Mirandola od in Marsilio Ficino. Il fatto che numerosi filosofi condividessero un atteggiamento umanista non implica che questo fosse una filosofia. D’altra parte, se l’umanesimo del Rinascimento si interessò ai temi della “filosofia morale”, questa preoccupazione deve essere intesa come uno sforzo in più per porre fine alla manipolazione pratica operata in questo campo dalla filosofia scolastica medievale. Partendo dall’errore di interpretare l’umanesimo come una filosofia è facile arrivare a posizioni naturaliste come quelle espresse nello Humanist Manifesto del 1933, o a posizioni social-liberali come quelle dello Humanist Manifesto II del 1974. Stando così le cose, non sorprende che vari autori tra i quali Lamont abbiano definito il proprio umanesimo come naturalista ed anti-idealista, proclamando il rifiuto del soprannaturale, l’evoluzionismo radicale, l’inesistenza dell’anima, l’autosufficienza dell’uomo, la libertà della volontà, l’etica intra-mondana, il valore dell’arte e l’umanitarismo. Credo che tali autori abbiano tutto il diritto di caratterizzare così le proprie concezioni ma mi pare eccessivo sostenere che l’umanesimo storico si sia mosso all’interno di questo orizzonte. D’altra parte penso che la proliferazione di “umanesimi” negli anni recenti sia del tutto legittima, sempre che questi si presentino come forme particolari di umanesimo, senza la pretesa di assolutizzarne l’idea. Credo anche, infine, che l’umanesimo sia attualmente in condizioni di diventare una filosofia, una morale, uno strumento di azione ed uno stile di vita. | |||
La discussione filosofica portata avanti contro un umanesimo storico - ed in più localizzato in una precisa area geografica - è stata mal formulata. Il dibattito comincia solo ora e le obiezioni dell’anti-umanesimo dovranno dimostrare la loro validità confrontandosi con quanto il Nuovo Umanesimo universalista propone oggi. Dobbiamo riconoscere che tutta questa discussione ha avuto un tono un po’ provinciale e che ormai non è più possibile sostenere che l’umanesimo sia apparso in un’unica parte del mondo, che solo lì possa essere discusso e che il resto del mondo debba seguire quella specie di modello da esportazione. Concediamo pure che il copyright, il monopolio della parola “umanesimo”, appartenga ad una certa area geografica. Di fatto questa discussione si riferisce all’umanesimo occidentale, europeo ed in certa misura ciceroniano. Noi, però, abbiamo sostenuto che l’umanesimo non fu mai una filosofia ma una prospettiva ed un atteggiamento di fronte alla vita: allora, che cosa ci impedisce di estendere la nostra ricerca dall’Occidente ad altre regioni del pianeta e riconoscere che tale atteggiamento vi si manifestò in modo simile? Se, al contrario, fissiamo l’umanesimo storico come una filosofia e, per di più, come una filosofia specifica dell’Occidente, non solo commettiamo un errore ma finiamo anche per innalzare una barriera insuperabile che impedisce il dialogo con gli atteggiamenti umanisti di tutte le culture della Terra. Se mi permetto di insistere su questo punto non è solo per le conseguenze teoriche che la posizione di cui parlavamo ha avuto ma anche per le conseguenze negative che essa ha direttamente nella pratica. | |||
Nell’umanesimo storico esisteva la profonda credenza che la conoscenza ed il controllo delle leggi naturali avrebbe portato alla liberazione dell’umanità, che tale conoscenza fosse patrimonio di tutte le culture e che si dovesse imparare da ciascuna di esse. Ma oggi abbiamo chiaro come il sapere, la conoscenza, la scienza e la tecnologia possano essere oggetto di manipolazione e come la conoscenza sia spesso servita da strumento di dominazione. Il mondo è cambiato e la nostra esperienza è cresciuta. | |||
Alcuni hanno creduto che la religiosità abbrutisse la coscienza e quindi, per imporre paternalisticamente la libertà, si sono scagliati contro le religioni. Oggi emergono violente reazioni religiose che non rispettano la libertà di coscienza. Il mondo è cambiato e la nostra esperienza è cresciuta. Alcuni hanno pensato che qualunque differenza culturale costituisse una divergenza e che quindi bisognasse uniformare i costumi e gli stili di vita. Oggi si manifestano violente reazioni a questi tentativi di uniformazione ed anzi varie culture cercano di imporre i propri valori senza rispettare la diversità. Il mondo è cambiato e la nostra esperienza è cresciuta... | |||
Ed oggi, di fronte a questa tragica scomparsa della ragione, di fronte a sempre nuovi sintomi di neo-irrazionalismo che sembrano sommergerci, si ascoltano ancora gli echi di quel razionalismo primitivo nel quale sono state educate varie generazioni. Molti dicono: “Avevamo ragione quando cercavamo di farla finita con le religioni, perché se ci fossimo riusciti oggi non ci sarebbero guerre di religione; avevamo ragione quando cercavamo di liquidare la diversità, perché se ci fossimo riusciti ora non si accenderebbero le lotte tra etnie e culture!” Ma i razionalisti di questa schiatta non sono mai riusciti ad imporre il loro culto filosofico unico, né il loro stile di vita unico, né la loro cultura unica, e questo è ciò che conta. E conta soprattutto la discussione per risolvere i drammatici conflitti che si stanno presentando oggi. Quanto tempo ci vorrà ancora per capire che una cultura ed i suoi capisaldi intellettuali o comportamentali non sono affatto dei modelli che tutta l’umanità deve seguire? Dico questo perché forse è il momento di riflettere seriamente sul cambiamento del mondo e di noi stessi. E’ facile pretendere che cambino gli altri: il punto è che gli altri pensano la stessa cosa. Non sarà tempo di iniziare a riconoscere l’“altro”, la diversità del ‘tu’? Credo che oggi sia sul tappeto con più urgenza che mai il problema del cambiamento del mondo e che questo cambiamento, per poter essere positivo, debba andare di pari passo con il cambiamento personale. Dopo tutto, la mia vita ha senso solo se voglio viverla e solo se posso scegliere le condizioni della mia esistenza e della vita in generale o lottare per esse. L’antagonismo tra l’aspetto personale e quello sociale della vita non ha dato buoni risultati, per cui è da considerare seriamente se non abbia più senso una relazione convergente tra i due termini. L’antagonismo tra le culture non ci porta sulla strada giusta, per cui diventa imprescindibile riconsiderare un modo di riconoscere la diversità culturale vero soltanto a parole; e diventa inoltre imprescindibile lo studio di una possibile convergenza delle culture che porti alla creazione di una [[Nazione Umana Universale|nazione umana universale]]. | |||
Per ultimo c’è da dire che non poche pecche sono state attribuite agli umanisti di tutte le epoche. Si è detto che anche Machiavelli era un umanista che cercava di comprendere le leggi che reggono il potere; che lo stesso Galileo mostrò una sorta di debolezza morale di fronte alla barbarie dell’Inquisizione; che Leonardo annoverava, tra le sue invenzioni, delle macchine da guerra molto perfezionate, disegnate per il Principe. E, continuando su questo registro, si è affermato che anche molti scrittori, pensatori e scienziati contemporanei hanno mostrato debolezze dello stesso genere. Sicuramente c’è del vero in tutto questo: ma dobbiamo essere giusti nella nostra valutazione dei fatti. Einstein non ha avuto a che vedere con la fabbricazione della bomba atomica; il suo merito risiede nell’invenzione della cellula fotoelettrica, grazie alla quale si sono sviluppate tante industrie, comprese il cinema e la televisione, ed il suo genio si è rivelato soprattutto nella formulazione di una grande teoria assoluta: la teoria della Relatività. Ed Einstein non ha mostrato debolezze morali di fronte alla nuova Inquisizione. Né tantomeno Oppenheimer al quale il progetto Manhattan, finalizzato alla costruzione di uno strumento che mettesse fine al conflitto mondiale, era stato presentato solo come un’arma dissuasiva, che mai sarebbe stata utilizzata contro degli esseri umani. Oppenheimer fu vilmente tradito e per questo fece sentire con forza la sua voce appellandosi alla coscienza morale degli scienziati: per questo fu destituito dall’incarico che ricopriva, per questo fu perseguitato dal Maccartismo. Molti difetti morali attribuiti a persone che hanno manifestato un atteggiamento umanista non hanno a che vedere con la loro posizione nei confronti della società o della scienza ma con la loro stoffa di esseri umani posti di fronte al dolore e alla sofferenza. Se parliamo di coerenza e di forza morale, la figura di Giordano Bruno di fronte al martirio appare come il paradigma dell’umanista classico e, al nostro tempo, tanto Einstein quanto Oppenheimer possono essere giustamente considerati umanisti tutti d’un pezzo. E perché, andando al di là del campo della scienza, non dovremmo considerare come dei genuini umanisti Tolstoj, Gandhi e Martin Luther King? Forse Schweitzer non è stato un umanista? Sono sicuro che milioni di persone in tutto il mondo affrontano la vita con un atteggiamento umanista ma se cito solo alcune personalità è perché esse costituiscono modelli di umanesimo universalmente riconosciuti. So che a tali individui possono essere rimproverati alcuni comportamenti, qualche volta il modo di agire od il senso dell’opportunità od il tatto, ma non possiamo negare il loro impegno nei confronti degli altri esseri umani. D’altra parte, non siamo qui per pontificare su chi sia umanista e su chi non lo sia ma per presentare la nostra opinione, con tutte le limitazioni del caso, sull’[[Umanesimo]]. Ma se qualcuno esigesse da noi una definizione dell’atteggiamento umanista in questo momento storico, gli risponderemmo con poche parole che “è un umanista chiunque lotti contro la [[discriminazione]] e la [[violenza]] e proponga delle alternative affinché la libertà di scelta dell’[[essere umano]] possa manifestarsi”. | |||
Nient’altro. Molte grazie. | |||
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Detto anche Nuovo Umanesimo. È caratterizzato dalla sottolineatura dell'atteggiamento umanista. Questo atteggiamento non è una filosofia ma una prospettiva, una sensibilità e un modo di vivere il rapporto con gli altri esseri umani. L'umanesimo universalista sostiene che in tutte le culture, nel loro miglior momento di creatività, l'atteggiamento umanista pervade l'ambiente sociale. Vengono così ripudiate la discriminazione, le guerre e, in generale, la violenza. La libertà di idee e di credenze assume forte impulso e ciò incoraggia, a sua volta, la ricerca e la creatività nella scienza, nell'arte e nelle altre espressioni sociali. In ogni caso, l'umanesimo universalista propone un dialogo non astratto né istituzionale tra culture, ma l'accordo sui punti essenziali e la reciproca collaborazione tra rappresentanti di diverse culture, basandosi su “momenti” umanisti simmetrici (vedi momento umanista). Il panorama generale delle idee dell'umanesimo universalista è delineato nel documento del movimento umanista ( vedi umanista, documento).
Conferenza di Silo: Cosa intendiamo oggi per Umanesimo Universalista
Conferenza presso la Comunità Emanu-el, sede dell'ebraismo liberale in Argentina. Buenos Aires, 24 Novembre 1994
Ringrazio la comunità Emanu-El ed il rabbino Sergio Bergman per l’opportunità che oggi mi offrono di parlare qui. Ringrazio per la loro presenza i membri della comunità, i correlatori e, in generale, gli amici dell’umanesimo.
Il titolo della presente dissertazione postula l’esistenza di un umanesimo universale: ma, com’è evidente, si tratta di un’affermazione che dovrà essere provata. Per farlo bisognerà innanzitutto chiarire che cosa si intenda per “umanesimo”, dato che sul significato di questa parola non esiste un accordo generale e quindi sarà necessario chiederci se l’“umanesimo” sia proprio di una regione del mondo, di una cultura, o se non faccia parte piuttosto delle radici e del patrimonio di tutta l’umanità. Sarà anche opportuno mettere subito in chiaro da dove sorge il nostro interesse per questi temi perché, al non farlo, qualcuno potrebbe pensare che siamo motivati da una semplice curiosità storica o magari da uno sfoggio nozionistico di cultura. L’umanesimo ha per noi il merito speciale di essere non solo storia ma anche progetto per un mondo futuro e strumento attuale d’azione.
Ci interessa un umanesimo che contribuisca al miglioramento della vita, che crei un fronte contro la discriminazione, il fanatismo, lo sfruttamento e la violenza. In un mondo che corre verso la globalizzazione e che mostra i sintomi dello scontro tra culture, etnie e regioni, deve esistere un umanesimo universalista, plurale, basato sulla convergenza. In un mondo in cui i paesi, le istituzioni ed i rapporti umani tendono a destrutturarsi, deve esistere un umanesimo capace di stimolare la ricomposizione delle forze sociali. In un mondo che ha smarrito il senso e la direzione della vita deve esistere un umanesimo capace di creare una nuova atmosfera di riflessione grazie alla quale venga meno l’opposizione irriducibile tra il personale ed il sociale o tra il sociale ed il personale. Ci interessa un umanesimo creativo, non un umanesimo ripetitivo; un nuovo umanesimo che abbia chiari i paradossi di quest’epoca ed aspiri a risolverli. Questi temi, per qualche verso apparentemente contraddittori, verranno trattati in modo più dettagliato nel corso di questo intervento.
Con la domanda: “Che cosa intendiamo oggi per umanesimo?”, stiamo puntando tanto all’origine quanto allo stato attuale della questione. Inizieremo il nostro studio dall’umanesimo storicamente riconoscibile in Occidente, lasciando però aperta la possibilità di portare avanti la ricerca anche in altre parti del mondo dove l’atteggiamento umanista era presente già prima della coniazione di termini come “umanesimo”, “umanista” o simili. Gli aspetti più rilevanti di questo atteggiamento, che costituisce il tratto comune degli umanisti di tutte le culture, possono essere descritti così: 1. Si riconosce all’essere umano una posizione centrale sia come valore sia come preoccupazione; 2. si sostiene l’uguaglianza di tutti gli esseri umani; 3. si accettano e si valorizzano le diversità personali e culturali; 4. si tende a sviluppare la conoscenza al di là di quanto accettato, fino a quel momento, come verità assoluta; 5. si sostiene la libertà di professare qualunque idea e credenza; 6. si ripudia la violenza.
Se ci addentriamo nella cultura europea ed in modo particolare in quella dell’Italia prerinascimentale, risulta che gli studia humanitatis (lo studio delle “materie umanistiche”) erano incentrati sulla conoscenza delle lingue greca e latina e ponevano particolare enfasi sugli autori “classici”. Le “materie umanistiche” comprendevano: storia, poesia, retorica, grammatica, letteratura e filosofia morale. Esse affrontavano questioni genericamente umane, a differenza delle materie proprie dei giuristi, degli studiosi di canoni e leggi e degli artisti, che erano finalizzate ad una formazione specificamente professionale. Ovviamente anche questi studiosi utilizzavano, per la propria qualificazione, elementi propri delle materie umanistiche ma i loro studi erano incentrati di preferenza sulle applicazioni pratiche proprie delle loro rispettive professioni. La differenza tra “umanisti” e “professionisti” si andò accentuando nella misura in cui i primi approfondirono gli studi classici e la ricerca su altre culture; si creò così una sorta di separazione tra la formazione professionale e l’interesse per tutto ciò che era genericamente umano e per le umane attività. Questa tendenza continuò: gli studi degli “umanisti” arrivarono ben presto a toccare campi molto lontani da quelle che all’epoca venivano intese come “materie umanistiche”, ed è così che prese le mosse la grande rivoluzione culturale del Rinascimento.
In realtà, l’atteggiamento umanista si era sviluppato molto prima e di esso possiamo trovare traccia nei temi trattati dai “poeti goliardi” e dalle scuole delle cattedrali francesi del XII secolo. Invece la parola umanista, che designava un certo tipo di studioso, cominciò ad essere usata in Italia solo a partire dal 1538. Su questo punto rimando alle osservazioni di A. Campana ed al suo articolo The origin of the word ‘humanist’ pubblicato nel 1946. Dico tutto questo per sottolineare il fatto che i primi umanisti non si riconoscevano affatto in tale designazione, che entrerà in uso solo molto più tardi. E qui sarà opportuno ricordare come parole affini, quali humanistische (“umanistico”), secondo gli studi di Walter Rüegg, comincino ad essere utilizzate nel 1784, mentre humanismus (“umanesimo”) inizi a diffondersi solo nel 1808 a partire dai lavori di Niethammer. E’ verso la metà del secolo scorso che il termine “umanesimo” circola in quasi tutte le lingue. Stiamo parlando, pertanto, di designazioni recenti e di interpretazioni di fenomeni che furono vissuti dai loro protagonisti in un modo molto diverso da quello ammesso dalla storiografia o dalla storia della cultura del secolo scorso. Questo punto non mi sembra ozioso e vorrei riprenderlo più avanti quando esaminerò i diversi significati che la parola “umanesimo” ha assunto fino ad oggi. Se mi si concede una digressione dirò che nel momento attuale questo substrato storico persiste ancora e con esso la distinzione tra lo studio delle materie umanistiche che si impartisce nelle università od in istituti specializzati e l’atteggiamento “umanista” definito non dalla direzione degli interessi professionali delle persone che ne sono portatrici ma dal fatto che per esse il fenomeno umano risulta costituire la preoccupazione centrale. Oggi quando qualcuno si definisce “umanista” non lo fa riferendosi ai suoi studi di “materie umanistiche” e, parallelamente, uno studente od uno studioso di “materie umanistiche” non per questo si considera “umanista”. L’atteggiamento “umanista” è quasi generalmente inteso in senso più ampio, quasi totalizzante, al di là delle specializzazioni accademiche.
Nel mondo accademico occidentale si suole dare il nome di “umanesimo” a quel processo di trasformazione della cultura che prese le mosse in Italia, ed in particolare a Firenze, tra la fine del 1300 e l’inizio del 1400 e che, con il Rinascimento, giunse a coinvolgere l’Europa intera. L’umanesimo si caratterizzò per il suo interesse per le humanae litterae (che erano gli scritti che trattavano le cose umane), intese in contrapposizione alle divinae litterae (che si riferivano invece alla divinità). E questo è uno dei motivi per cui ai suoi esponenti venne dato il nome di “umanisti”. Secondo questa interpretazione, l’umanesimo risulta essere stato, alle origini, un fenomeno letterario caratterizzato da una netta tendenza a rivalutare i contributi della cultura greco-latina, soffocati dalla visione cristiana medievale. Va notato come la nascita di questo fenomeno culturale non sia dovuta alla semplice modificazione endogena dei fattori economici, sociali e politici della società occidentale, quanto piuttosto al fatto che questa abbia recepito le influenze trasformatrici provenienti da altri ambienti e civiltà. L’intenso contatto con la cultura ebraica e con quella musulmana e l’ampliamento dell’orizzonte geografico crearono un contesto che incentivò la preoccupazione per l’umano in generale e per la scoperta delle cose umane.
Credo che Salvatore Puledda sia nel giusto quando descrive, nel suo Interpretazioni dell’Umanesimo, il mondo europeo medievale preumanista come un ambiente chiuso, dal punto di vista temporale e fisico, che tendeva a negare l’importanza del contatto, che di fatto avveniva, con altre culture. La storia, dal punto di vista medievale, è la storia del peccato e della redenzione; la conoscenza di altre civiltà non illuminate dalla grazia di Dio non riveste grande interesse; il futuro prepara semplicemente l’Apocalisse ed il giudizio di Dio. La Terra è immobile e sta al centro dell’universo, secondo la concezione tolemaica; il tutto è circondato dalle stelle fisse ed il movimento circolare delle sfere planetarie è dovuto all’azione di forze angeliche. Questo sistema termina nell’empireo, sede di Dio, motore immobile che tutto muove.
L’organizzazione sociale è coerente con questa visione: una struttura gerarchica ereditaria differenzia i nobili dai servi; al vertice della piramide stanno il Papa e l’Imperatore, a volte alleati, a volte in lotta per il predominio gerarchico. Il regime economico medievale, per lo meno fino al secolo XI, è anch’esso un sistema chiuso, fondato sul consumo del prodotto nel luogo di produzione. La circolazione monetaria è scarsa, il commercio è difficile e lento. L’Europa è una potenza continentale assediata poiché il mare, in quanto via di scambio commerciale, è in mano ai bizantini e agli arabi. Ma i viaggi di Marco Polo ed il suo contatto con le culture e la tecnologia dell’estremo oriente; i centri di insegnamento della Spagna, dai quali i maestri ebrei, arabi e cristiani irradiano il sapere; la ricerca di nuove vie commerciali che aggirino la barriera creata dal conflitto bizantino-musulmano; la formazione di una classe mercantile sempre più attiva; la crescita di una borghesia cittadina ogni giorno più potente ed infine lo svilupparsi di istituzioni politiche più efficienti, quali le signorie in Italia, tutto questo insieme di fattori determinano un cambiamento profondo nell’atmosfera sociale e questo cambiamento permette lo sviluppo dell’atteggiamento umanista. Non dimentichiamo che tale processo conosce l’alternarsi ripetuto di progressi e regressi e questo fin quando il nuovo atteggiamento non diventa cosciente.
Cento anni dopo Petrarca (1304-1374) la conoscenza dei classici è quasi dieci volte maggiore che in tutti i mille anni precedenti. Petrarca ricerca e studia gli antichi manoscritti nel tentativo di correggere una memoria storica deformata; hanno inizio con lui la tendenza alla ricostruzione del passato ed un nuovo punto di vista sullo scorrere della storia, allora ostacolato dall’immobilismo proprio dell’epoca. Un altro dei primi umanisti, Manetti, nella sua opera De dignitate et excellentia hominis (Sulla dignità e l’eccellenza dell’uomo), rivendica la dignità dell’essere umano contro il Contemptus mundi, il disprezzo del mondo, predicato da quel monaco Lotario che in seguito divenne Papa con il nome di Innocenzo III. Quindi Lorenzo Valla nel suo De voluptate (Sul piacere) attacca il concetto etico del dolore vigente nella società del suo tempo. E così, mentre il sistema economico e le strutture sociali si modificano, gli umanisti si sforzano di rendere cosciente questo processo di trasformazione producendo un’immensa quantità di opere grazie alle quali l’umanesimo prende forma a poco a poco. Ma l’umanesimo ben presto travalicherà l’ambito strettamente culturale e finirà per mettere in discussione le strutture del potere in mano alla Chiesa ed al monarca.
Numerosi specialisti hanno messo in evidenza come già nell’umanesimo prerinascimentale compaia una nuova immagine dell’essere umano e della personalità umana. Secondo questa nuova concezione, la personalità umana si costruisce e si esprime nell’azione ed è in tal senso che la volontà viene ad assumere un’importanza maggiore dell’intelligenza speculativa. Parallelamente si fa strada una nuova attitudine nei confronti della natura: questa non è più una valle di lacrime creata da Dio per i mortali bensì l’ambiente dell’essere umano ed in alcuni casi la sede ed il corpo della stessa divinità. Questa nuova attitudine favorisce lo studio dei diversi aspetti del mondo materiale e fa sorgere la tendenza a spiegare tale mondo sulla base di un insieme di forze immanenti senza ricorrere a concetti teologici. Da questo deriva un netto orientamento verso la sperimentazione e verso il dominio delle leggi naturali. Il mondo è ora il regno dell’uomo e sta a lui dominarlo grazie al sapere, grazie alle Scienze. Proprio sulla base di questo orientamento, gli studiosi del XIX secolo hanno annoverato tra gli “umanisti” non soltanto personalità letterarie ma hanno collocato, a fianco di Nicola di Cusa, Rodolfo Agricola, Juan Reuchlin, Erasmo, Tommaso Moro, Jacques Lefevre, Charles Bouillé, Juan Vives, anche Leonardo e Galileo.
E’ noto come molti temi introdotti dagli umanisti abbiano esercitato un’influenza che è andata ben oltre il periodo rinascimentale: essa è infatti rintracciabile negli enciclopedisti e nei rivoluzionari del XVIII secolo. Ma dopo le rivoluzioni americana e francese ha inizio il declino dell’atteggiamento umanista che finisce per scomparire. L’idealismo critico, l’idealismo assoluto ed il romanticismo, ispiratori di filosofie politiche assolutiste, si lasciano alle spalle l’idea che l’essere umano sia il valore centrale e trasformano l’essere umano stesso nell’epifenomeno di altre forze. Questa “cosificazione”, questo”lui” al posto di un “tu”, come farà notare con acutezza Martin Buber, si affermano ben presto in tutto il pianeta. Ma la tragedia delle due guerre mondiali tocca le radici stesse della società e così, di fronte a qualcosa che sembra assurdo, sorge nuovamente la domanda: quale è il significato dell’essere umano? Questa domanda si fa presente soprattutto nelle cosiddette “filosofie dell’esistenza”. Alla fine di questo intervento tornerò sulla situazione dell’umanesimo contemporaneo. Per ora vorrei mettere in risalto alcuni aspetti fondamentali dell’umanesimo e, tra questi, l’atteggiamento antidiscriminatorio e la tendenza all’universalità.
I temi della tolleranza reciproca e quello della convergenza sulla base della tolleranza sono molto cari all’umanesimo e per questo vorrei sottoporre nuovamente alla vostra attenzione quanto spiegato dal professor Bauer nella sua conferenza del 3 novembre scorso. Bauer si è espresso in questi termini: “Nella società feudale musulmana, in particolare in Spagna, la situazione degli ebrei era molto diversa. Di una loro emarginazione sociale non è possibile nemmeno parlare, così come non è possibile parlarne nel caso dei cristiani. E solo in via del tutto eccezionale potevano insorgere quelle tendenze che oggi chiameremmo “fondamentaliste”. La religione dominante non si identificava con l’ordine sociale nella stessa misura in cui ciò avveniva nell’Europa cristiana. Analogamente, non è davvero il caso di usare termini quali “divisione ideologica”, per quanto esistessero, parallelamente ed in rapporto di tolleranza reciproca, culti differenti. Si frequentavano insieme, senza divisioni, le scuole e le università ufficiali; cosa, questa, inconcepibile nella società cristiana medievale. Il grande Maimonide in gioventù fu discepolo ed amico del filosofo arabo Ibn Roshd (Averroè). E se è vero che, più tardi, gli ebrei e lo stesso Maimonide subirono pressioni e persecuzioni da parte dei fanatici di origine africana che si erano impadroniti del potere nell’al-Andalus, è vero anche che Averroè per loro non era che un eretico per cui non sfuggì alla condanna. In un’atmosfera di questo genere sì che poteva nascere, tanto da parte dei musulmani che degli ebrei, un umanesimo ampio e profondo... In Italia la situazione era simile, non solo durante il breve periodo della dominazione islamica in Sicilia ma anche in seguito e per molto tempo addirittura durante il dominio diretto del Papato. Un monarca di origine tedesca, Federico II di Hohenstaufen, che regnava in Sicilia ed era egli stesso poeta, ebbe l’audacia di dichiarare che il proprio regime era fondato su una triplice base ideologica: la cristiana, l’ebrea e la musulmana e di arrivare a stabilire, attraverso quest’ultima, la continuità con la filosofia greca classica.”
Fin qui la citazione.
Per quanto attiene all’umanesimo nelle culture ebrea ed araba non c’è alcuna difficoltà a rinvenirne le tracce; vorrei limitarmi a riportare alcune osservazioni dell’accademico russo Artur Sagadeev tratte dalla conferenza da lui tenuta a Mosca nel novembre dell’anno passato, dal titolo “L’umanesimo nel pensiero musulmano classico”. Sagadeev ha osservato: “(...) l’umanesimo nel mondo musulmano poggiava sullo sviluppo delle città e sulla loro cultura. Dalle cifre che seguono sarà possibile farsi un’idea del grado di urbanizzazione del mondo musulmano: nelle tre più grandi città della Savad - ovvero, la Mesopotamia meridionale - e nelle due più grandi dell’Egitto viveva all’incirca il venti per cento della popolazione complessiva. La percentuale dei residenti in città con una popolazione superiore ai centomila abitanti superava, nella Mesopotamia e nell’Egitto dei secoli VIII e X, quella di paesi dell’Europa Occidentale del secolo XIX quali l’Inghilterra, l’Olanda, il Galles o la Francia. Secondo i calcoli più accurati, Bagdad contava a quel tempo quattrocentomila abitanti, e la popolazione di città come Fustat (che in seguito divenne Il Cairo), Cordova, Alessandria, Kufa e Bassora era compresa tra i cento e i duecentomila abitanti. La concentrazione nelle città di grandi risorse provenienti dal commercio e dalle tasse determinò, nel Medioevo, la nascita di una frangia piuttosto numerosa di intellettuali, portò ad una dinamizzazione della vita spirituale e creò una situazione di prosperità per la scienza, la letteratura e le arti. Al centro dell’attenzione, in ogni campo, stava l’essere umano, inteso sia come genere umano che come personalità singola. Va sottolineato come il mondo musulmano, a differenza dell’Europa medievale, non abbia conosciuto una divisione negli orientamenti assiologici tra la cultura urbana e la cultura ad essa opposta, che in Europa era rappresentata dagli abitanti dei monasteri e da quelli dei castelli feudali. I responsabili dell’educazione teologica ed i gruppi sociali che nel mondo musulmano svolgevano una funzione analoga a quelli feudali in Europa vivevano nelle città, dove subivano l’influenza poderosa della cultura che si era formata tra i cittadini musulmani facoltosi. Possiamo farci un’idea di quale fosse l’orientamento assiologico di tali abitanti, prendendo in esame il gruppo di riferimento che tendevano ad imitare, perché incarnava quei tratti distintivi considerati indispensabili in una persona illustre e ben educata. Tale gruppo di riferimento era costituito dagli Adib, persone di vasti interessi, istruite e dotate di profondo senso morale. L’Adab, vale a dire l’insieme delle qualità proprie dell’Adib, comportava profondi ideali di condotta nella vita cittadina e di corte, la raffinatezza e l’umorismo e, per la sua funzione intellettuale e morale, era sinonimo di quel che i greci avevano indicato con la parola ‘paideia’ ed i latini con ‘humanitas’. Gli Adib incarnavano gli ideali dell’umanesimo e nel contempo ne diffondevano le idee, che a volte assumevano la forma di lapidarie sentenze, quali: ‘l’uomo è il problema dell’uomo’; ‘chi attraversa il nostro mare non troverà altra sponda se non se stesso’. L’insistenza sul destino terreno dell’essere umano, così tipica degli Adib, li portava a volte allo scetticismo religioso; anzi, tra le loro fila non mancavano figure assai in vista che ostentavano il proprio ateismo. L’Adab inizialmente indicava le norme di comportamento, l’etichetta, dei beduini; il termine assunse un significato propriamente umanista quando il Califfato, per la prima volta da Alessandro Magno, divenne il centro di interrelazione tra differenti tradizioni culturali e tra differenti gruppi confessionali, il centro che univa il Mediterraneo al mondo indo-iraniano. Nel periodo di prosperità della cultura musulmana medievale, l’Adab attribuì alla conoscenza della filosofia greca antica un grandissimo valore ed assimilò i programmi educativi dei filosofi greci. Per la messa in pratica di tali programmi i musulmani disponevano di enormi possibilità: basti dire che, secondo il calcolo degli specialisti, nella sola Cordova si concentravano più libri che in tutta Europa, escludendo l’al-Andalus. Il Califfato, divenuto centro di influenze reciproche tra culture diverse, mescolando tra loro differenti gruppi etnici, contribuì alla formazione di un altro elemento dell’umanesimo: l’universalismo, ovvero l’idea dell’unità del genere umano. La formazione di questa idea aveva come correlato nella vita reale il fatto che le terre abitate dai musulmani si estendevano dal corso del Volga a Nord fino al Madagascar a Sud e dalla costa atlantica dell’Africa ad Occidente fino alla costa pacifica dell’Asia ad Oriente. Anche dopo la disintegrazione dell’Impero musulmano che portò alla formazione, sulle sue rovine, di piccoli stati comparabili ai possedimenti dei successori di Alessandro Magno, i fedeli dell’Islam continuarono a vivere uniti da una sola religione, una sola lingua letteraria comune, una sola legge, una sola cultura e nella vita quotidiana continuarono ad avere rapporti con svariati gruppi confessionali molto diversi da loro, con i quali ci fu un continuo scambio di valori culturali. Lo spirito dell’universalismo dominava nei circoli scientifici (i ‘Madjalis’) i quali univano musulmani, cristiani, ebrei ed atei che provenivano dagli angoli più remoti del mondo musulmano ma condividevano interessi intellettuali comuni. Li univa quella ‘ideologia dell’amicizia’ che in precedenza aveva unito le scuole filosofiche dell’antichità - quali, ad esempio, gli stoici, gli epicurei, i neoplatonici, ecc. - e che avrebbe tenuto unito, nel Rinascimento italiano, il circolo di Marsilio Ficino. Sul piano teorico, i princìpi dell’universalismo erano già stati elaborati nel quadro del Kalam o teologia speculativa; in seguito divennero il fondamento della concezione del mondo tanto per i filosofi razionalisti quanto per i mistici sufi. Nelle discussioni organizzate dai teologi Mutakallim (i ‘Maestri dell’Islam’), alle quali partecipavano i rappresentanti di differenti confessioni, la norma era dimostrare l’autenticità delle tesi non con riferimenti ai testi sacri, dato che questi non avrebbero offerto ai rappresentanti di altre religioni alcun sostegno per la discussione, ma basandosi esclusivamente sulla ragione umana”.
La lettura di questo brano di Sagadeev non rende merito della ricchezza di un lavoro che ci descrive costumi, vita quotidiana, arte, religiosità, diritto ed attività economica del mondo musulmano all’epoca del suo splendore umanista. Vorrei passare ora ad un’altra opera, anch’essa di un accademico russo, specializzato però nelle culture d’America. Il professor Sergei Semenov, nel suo saggio monografico dello scorso agosto, intitolato Tradizioni e innovazioni umaniste nel mondo ibero-americano, utilizza un approccio completamente nuovo per la ricerca dell’atteggiamento umanista all’interno delle grandi culture dell’America precolombiana.
Vi lascio alle sue parole: “(...) Possiamo rintracciare nozioni di umanesimo in America centrale ed in America del Sud in epoca precolombiana. Nel primo caso si tratta del mito di Quetzalcoatl, nel secondo della leggenda di Viracocha, due divinità che rifiutavano i sacrifici umani, generalmente di prigionieri di guerra appartenenti ad altre tribù. I sacrifici umani erano comuni in America centrale prima della conquista spagnola. Tuttavia, tanto i miti e le leggende indigene che le cronache spagnole ed i monumenti della cultura materiale dimostrano come il culto di Quetzalcoatl, che compare negli anni 1200-1100 dell’era precedente alla nostra, sia strettamente legato, nella coscienza dei popoli di questa regione, alla lotta contro i sacrifici umani ed all’affermazione di norme morali che condannano l’assassinio, il furto e la guerra. Stando a quanto narrato da un ciclo di leggende, il governante tolteco della città di Tula, Topiltzin, che assunse il nome di Quetzalcoatl e visse nel secolo X della nostra era, aveva tutte le caratteristiche di un vero eroe culturale. Secondo tali leggende, egli insegnò agli abitanti di Tula l’arte dell’oreficeria, proibì di compiere sacrifici umani od animali ed ordinò che agli dei venissero offerti soltanto fiori, pane ed essenze profumate. Topiltzin condannava l’assassinio, la guerra ed il furto. Secondo la leggenda aveva l’aspetto di un uomo bianco ma non era biondo, bensì di capelli scuri. Alcuni dicono che scomparve nel mare, altri che ascese al cielo avvolto dalle fiamme, consegnando alla stella del mattino la speranza del suo ritorno. A questo eroe si attribuisce l’affermazione in America centrale dello stile di vita umanista denominato ‘toltecayotl’, che fu assimilato non solo dai toltechi ma anche dai popoli vicini che ereditarono le loro tradizioni. Questo stile di vita si basava su una serie di princìpi: fratellanza tra tutti gli esseri umani, ricerca di un continuo perfezionamento, venerazione per il lavoro, onestà, fedeltà alla parola data, studio dei segreti della natura e visione ottimista del mondo. Le leggende dei popoli maya dello stesso periodo testimoniano l’attività di un governante o sacerdote della città di Chichen-Itzà, fondatore della città di Mayapan, chiamato Kukulkan, equivalente maya di Quetzalcoatl. Un altro rappresentante della tendenza umanista in America centrale fu il governante della città di Texcoco, il filosofo e poeta Netzahualcoyotl, che visse tra il 1402 e il 1472. Anche questo saggio rifiutò i sacrifici umani, cantò l’amicizia tra i popoli ed esercitò una profonda influenza sulla cultura delle popolazioni del Messico. In America del Sud troviamo un movimento simile all’inizio del XV secolo. Esso è legato ai nomi dell’Inca Cuzi Yupanqui, che ricevette il nome di Pachacutéc, ‘il riformatore’, ed a quello di suo figlio Tupac Yupanqui, ed all’espandersi del culto di Viracocha. Così come era costume in America centrale, e come già prima di lui aveva fatto suo padre Ripa Yupanqui, Pachacutéc assunse il titolo di dio e si chiamò Viracocha. Le norme morali sulle quali si reggeva ufficialmente la società di Tahuantinsuyo erano legate al culto di Pachacutéc ed alle riforme da lui attuate. Pachacutéc, proprio come Topiltzin, aveva tutte le caratteristiche dell’eroe culturale.”
Termino qui la citazione da un’opera che è, ovviamente, ben più estesa e sostanziosa.
Con la lettura di questi due testi ho voluto mostrare alcuni esempi della presenza di quello che chiamiamo “atteggiamento umanista” in aree geografiche molto distanti tra loro, presenza che evidentemente possiamo rintracciare in certi periodi precisi per ciascuna cultura. E dico “periodi precisi” perché tale atteggiamento sembra ora retrocedere ed ora avanzare secondo un ritmo ondulatorio nel corso della storia ed addirittura scomparire definitivamente, in alcuni casi, in quei tempi senza ritorno che precedono il collasso di una civiltà. Comprenderete che stabilire dei legami tra civiltà per mezzo dei loro “momenti” umanisti è un compito arduo e di grande portata. Se nel momento attuale i gruppi etnici e religiosi si ripiegano su se stessi alla ricerca di una forte identità, questo significa che sta crescendo una sorta di sciovinismo culturale o regionale che minaccia di innescare uno scontro con altre etnie, culture o religioni. Ma la persona che legittimamente ama il proprio popolo e la propria cultura deve poter comprendere che in se stessa e nelle proprie radici è esistito o esiste un “momento umanista” che la rende universale per definizione e simile all’altra che ha di fronte. Si tratta, insomma, di differenze che non potranno essere spazzate via da nessuno. Si tratta di differenze che non costituiscono né una remora né un difetto né un fattore di ritardo ma che, al contrario, sono la ricchezza stessa dell’umanità. Il problema non sta nelle differenze bensì nel come portarle a convergere ed è ai “momenti umanisti” che mi riferisco quando parlo dei punti di convergenza.
Vorrei, per concludere, riprendere il discorso sullo stato della questione umanista nel momento attuale. Abbiamo detto che in seguito alle due catastrofi mondiali i filosofi dell’esistenza riaprirono il dibattito su un tema che sembrava morto e sepolto. Ma questo dibattito partì dall’ammissione che l’umanesimo fosse una filosofia quando in realtà non si trattò mai di una posizione filosofica ma di una prospettiva e di un atteggiamento di fronte alla vita ed alle cose. Se nel dibattito si dette per valida la descrizione dell’umanesimo propria del XIX secolo, non risulta strano che pensatori come Foucault abbiano accusato l’umanesimo di essere un prodotto tipico di quel secolo. Già prima Heidegger aveva espresso una posizione contraria all’umanesimo che aveva considerato, nella sua Lettera sull’Umanesimo, null’altro che un’ennesima “metafisica”. Forse la discussione si basò sulla posizione sostenuta dall’esistenzialismo sartriano che formulò la questione in termini filosofici. Osservando queste cose dalla prospettiva attuale ci sembra eccessivo accettare l’interpretazione di un fatto come il fatto stesso e, partendo da essa, attribuire al fatto determinate caratteristiche. Althusser, Lévi-Strauss e vari altri strutturalisti hanno fatto aperta professione di anti-umanesimo nelle loro opere, così come altri filosofi hanno difeso l’umanesimo intendendolo come una metafisica o quanto meno come un’antropologia. In realtà l’umanesimo storico occidentale non fu in nessun caso una filosofia, neppure in Pico della Mirandola od in Marsilio Ficino. Il fatto che numerosi filosofi condividessero un atteggiamento umanista non implica che questo fosse una filosofia. D’altra parte, se l’umanesimo del Rinascimento si interessò ai temi della “filosofia morale”, questa preoccupazione deve essere intesa come uno sforzo in più per porre fine alla manipolazione pratica operata in questo campo dalla filosofia scolastica medievale. Partendo dall’errore di interpretare l’umanesimo come una filosofia è facile arrivare a posizioni naturaliste come quelle espresse nello Humanist Manifesto del 1933, o a posizioni social-liberali come quelle dello Humanist Manifesto II del 1974. Stando così le cose, non sorprende che vari autori tra i quali Lamont abbiano definito il proprio umanesimo come naturalista ed anti-idealista, proclamando il rifiuto del soprannaturale, l’evoluzionismo radicale, l’inesistenza dell’anima, l’autosufficienza dell’uomo, la libertà della volontà, l’etica intra-mondana, il valore dell’arte e l’umanitarismo. Credo che tali autori abbiano tutto il diritto di caratterizzare così le proprie concezioni ma mi pare eccessivo sostenere che l’umanesimo storico si sia mosso all’interno di questo orizzonte. D’altra parte penso che la proliferazione di “umanesimi” negli anni recenti sia del tutto legittima, sempre che questi si presentino come forme particolari di umanesimo, senza la pretesa di assolutizzarne l’idea. Credo anche, infine, che l’umanesimo sia attualmente in condizioni di diventare una filosofia, una morale, uno strumento di azione ed uno stile di vita. La discussione filosofica portata avanti contro un umanesimo storico - ed in più localizzato in una precisa area geografica - è stata mal formulata. Il dibattito comincia solo ora e le obiezioni dell’anti-umanesimo dovranno dimostrare la loro validità confrontandosi con quanto il Nuovo Umanesimo universalista propone oggi. Dobbiamo riconoscere che tutta questa discussione ha avuto un tono un po’ provinciale e che ormai non è più possibile sostenere che l’umanesimo sia apparso in un’unica parte del mondo, che solo lì possa essere discusso e che il resto del mondo debba seguire quella specie di modello da esportazione. Concediamo pure che il copyright, il monopolio della parola “umanesimo”, appartenga ad una certa area geografica. Di fatto questa discussione si riferisce all’umanesimo occidentale, europeo ed in certa misura ciceroniano. Noi, però, abbiamo sostenuto che l’umanesimo non fu mai una filosofia ma una prospettiva ed un atteggiamento di fronte alla vita: allora, che cosa ci impedisce di estendere la nostra ricerca dall’Occidente ad altre regioni del pianeta e riconoscere che tale atteggiamento vi si manifestò in modo simile? Se, al contrario, fissiamo l’umanesimo storico come una filosofia e, per di più, come una filosofia specifica dell’Occidente, non solo commettiamo un errore ma finiamo anche per innalzare una barriera insuperabile che impedisce il dialogo con gli atteggiamenti umanisti di tutte le culture della Terra. Se mi permetto di insistere su questo punto non è solo per le conseguenze teoriche che la posizione di cui parlavamo ha avuto ma anche per le conseguenze negative che essa ha direttamente nella pratica.
Nell’umanesimo storico esisteva la profonda credenza che la conoscenza ed il controllo delle leggi naturali avrebbe portato alla liberazione dell’umanità, che tale conoscenza fosse patrimonio di tutte le culture e che si dovesse imparare da ciascuna di esse. Ma oggi abbiamo chiaro come il sapere, la conoscenza, la scienza e la tecnologia possano essere oggetto di manipolazione e come la conoscenza sia spesso servita da strumento di dominazione. Il mondo è cambiato e la nostra esperienza è cresciuta.
Alcuni hanno creduto che la religiosità abbrutisse la coscienza e quindi, per imporre paternalisticamente la libertà, si sono scagliati contro le religioni. Oggi emergono violente reazioni religiose che non rispettano la libertà di coscienza. Il mondo è cambiato e la nostra esperienza è cresciuta. Alcuni hanno pensato che qualunque differenza culturale costituisse una divergenza e che quindi bisognasse uniformare i costumi e gli stili di vita. Oggi si manifestano violente reazioni a questi tentativi di uniformazione ed anzi varie culture cercano di imporre i propri valori senza rispettare la diversità. Il mondo è cambiato e la nostra esperienza è cresciuta...
Ed oggi, di fronte a questa tragica scomparsa della ragione, di fronte a sempre nuovi sintomi di neo-irrazionalismo che sembrano sommergerci, si ascoltano ancora gli echi di quel razionalismo primitivo nel quale sono state educate varie generazioni. Molti dicono: “Avevamo ragione quando cercavamo di farla finita con le religioni, perché se ci fossimo riusciti oggi non ci sarebbero guerre di religione; avevamo ragione quando cercavamo di liquidare la diversità, perché se ci fossimo riusciti ora non si accenderebbero le lotte tra etnie e culture!” Ma i razionalisti di questa schiatta non sono mai riusciti ad imporre il loro culto filosofico unico, né il loro stile di vita unico, né la loro cultura unica, e questo è ciò che conta. E conta soprattutto la discussione per risolvere i drammatici conflitti che si stanno presentando oggi. Quanto tempo ci vorrà ancora per capire che una cultura ed i suoi capisaldi intellettuali o comportamentali non sono affatto dei modelli che tutta l’umanità deve seguire? Dico questo perché forse è il momento di riflettere seriamente sul cambiamento del mondo e di noi stessi. E’ facile pretendere che cambino gli altri: il punto è che gli altri pensano la stessa cosa. Non sarà tempo di iniziare a riconoscere l’“altro”, la diversità del ‘tu’? Credo che oggi sia sul tappeto con più urgenza che mai il problema del cambiamento del mondo e che questo cambiamento, per poter essere positivo, debba andare di pari passo con il cambiamento personale. Dopo tutto, la mia vita ha senso solo se voglio viverla e solo se posso scegliere le condizioni della mia esistenza e della vita in generale o lottare per esse. L’antagonismo tra l’aspetto personale e quello sociale della vita non ha dato buoni risultati, per cui è da considerare seriamente se non abbia più senso una relazione convergente tra i due termini. L’antagonismo tra le culture non ci porta sulla strada giusta, per cui diventa imprescindibile riconsiderare un modo di riconoscere la diversità culturale vero soltanto a parole; e diventa inoltre imprescindibile lo studio di una possibile convergenza delle culture che porti alla creazione di una nazione umana universale.
Per ultimo c’è da dire che non poche pecche sono state attribuite agli umanisti di tutte le epoche. Si è detto che anche Machiavelli era un umanista che cercava di comprendere le leggi che reggono il potere; che lo stesso Galileo mostrò una sorta di debolezza morale di fronte alla barbarie dell’Inquisizione; che Leonardo annoverava, tra le sue invenzioni, delle macchine da guerra molto perfezionate, disegnate per il Principe. E, continuando su questo registro, si è affermato che anche molti scrittori, pensatori e scienziati contemporanei hanno mostrato debolezze dello stesso genere. Sicuramente c’è del vero in tutto questo: ma dobbiamo essere giusti nella nostra valutazione dei fatti. Einstein non ha avuto a che vedere con la fabbricazione della bomba atomica; il suo merito risiede nell’invenzione della cellula fotoelettrica, grazie alla quale si sono sviluppate tante industrie, comprese il cinema e la televisione, ed il suo genio si è rivelato soprattutto nella formulazione di una grande teoria assoluta: la teoria della Relatività. Ed Einstein non ha mostrato debolezze morali di fronte alla nuova Inquisizione. Né tantomeno Oppenheimer al quale il progetto Manhattan, finalizzato alla costruzione di uno strumento che mettesse fine al conflitto mondiale, era stato presentato solo come un’arma dissuasiva, che mai sarebbe stata utilizzata contro degli esseri umani. Oppenheimer fu vilmente tradito e per questo fece sentire con forza la sua voce appellandosi alla coscienza morale degli scienziati: per questo fu destituito dall’incarico che ricopriva, per questo fu perseguitato dal Maccartismo. Molti difetti morali attribuiti a persone che hanno manifestato un atteggiamento umanista non hanno a che vedere con la loro posizione nei confronti della società o della scienza ma con la loro stoffa di esseri umani posti di fronte al dolore e alla sofferenza. Se parliamo di coerenza e di forza morale, la figura di Giordano Bruno di fronte al martirio appare come il paradigma dell’umanista classico e, al nostro tempo, tanto Einstein quanto Oppenheimer possono essere giustamente considerati umanisti tutti d’un pezzo. E perché, andando al di là del campo della scienza, non dovremmo considerare come dei genuini umanisti Tolstoj, Gandhi e Martin Luther King? Forse Schweitzer non è stato un umanista? Sono sicuro che milioni di persone in tutto il mondo affrontano la vita con un atteggiamento umanista ma se cito solo alcune personalità è perché esse costituiscono modelli di umanesimo universalmente riconosciuti. So che a tali individui possono essere rimproverati alcuni comportamenti, qualche volta il modo di agire od il senso dell’opportunità od il tatto, ma non possiamo negare il loro impegno nei confronti degli altri esseri umani. D’altra parte, non siamo qui per pontificare su chi sia umanista e su chi non lo sia ma per presentare la nostra opinione, con tutte le limitazioni del caso, sull’Umanesimo. Ma se qualcuno esigesse da noi una definizione dell’atteggiamento umanista in questo momento storico, gli risponderemmo con poche parole che “è un umanista chiunque lotti contro la discriminazione e la violenza e proponga delle alternative affinché la libertà di scelta dell’essere umano possa manifestarsi”.
Nient’altro. Molte grazie.