Miti-Radice Universali: differenze tra le versioni

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Libro di [[Silo]]
Libro di [[Silo]] incluso nel [[Opere Complete Volume I|Volume I delle Opere Complete]]. Scritto  e pubblicato per la prima volta in spagnolo nel 1990


=spiegazione=
Miti-radice universali, è stato scritto nel 1990. L’obiettivo dell’opera è quello di comparare i sistemi di tensione fondamentali sperimentati dai popoli che hanno creato i grandi miti.
Da tempi remoti è in atto lo sforzo per definire il mito, la leggenda e la favola; per separare la narrazione o il racconto poco attendibile dalla descrizione veritiera.  Molto lavoro è stato fatto per dimostrare che i miti sono l’abito simbolico che riveste verità fondamentali, oppure che costituiscono delle trasposizioni, nel senso che forze cosmiche vi divengono esseri dotati di intenzione. Si è anche detto che si tratta di evemerismi, cioè di racconti in cui personaggi di dubbia storicità vengono innalzati alle categorie di eroi o dei. Sono state formulate varie teorie per mostrare come a tali  deformazioni della ragione soggiacciano delle realtà oggettive. Si è indagato per scoprire il conflitto psicologico profondo in questi racconti che ora vengono considerati delle proiezioni. Un lavoro così enorme è in ogni caso risultato utile perché ci ha aiutato a comprendere, quasi in condizioni di laboratorio, come i miti recenti lottino con quelli antichi per conquistare uno spazio proprio. Quanto stiamo affermando non deve essere inteso in chiave sarcastica, come se volessimo ridurre le teorie al livello dei miti. A ben vedere, però, persino le teorie scientifiche possono staccarsi dall’ambito che è loro proprio e “prendere il volo” senza essere dimostrate: ma quando lo fanno è perché  in precedenza sono riuscite  a collocarsi sul piano delle credenze sociali e ad acquisire la forza plastica dell’immagine, la quale possiede un’importantissima funzione di riferimento  e risulta decisiva nell’orientare il comportamento. E nella nuova immagine che irrompe sulla scena, possiamo riconoscere l’avatar di un antico mito che acquista una nuova giovinezza grazie al modificarsi del paesaggio, non solo geografico ma anche sociale, a cui è necessario dare una risposta perché i tempi lo impongono.
Il sistema di tensioni vitali a cui è sottoposto un popolo si traduce in immagini;  questo, tuttavia, non basta a spiegare ogni cosa, a meno che non si ragioni nei termini rozzi di un meccanismo sfida-risposta. E’ necessario comprendere come in ogni cultura, in ogni gruppo, in ogni individuo, esista una memoria, un patrimonio storico, in base alle quali il mondo in cui si vive viene interpretato. Per noi, tale interpretazione è ciò che configura il paesaggio, il quale, pur essendo  percepito come qualcosa di esterno, risulta pervaso dalle tensioni vitali che si creano in un determinato momento storico o si sono create molto tempo prima e che, come elemento residuale, risultano parte dello schema interpretativo della realtà presente. Scoprire le tensioni storiche fondamentali di un determinato popolo ci permette di avvicinarci alla comprensione dei suoi ideali, delle sue aspirazioni e delle sue speranze; queste, però, non si trovano nel suo orizzonte come fredde idee ma piuttosto come immagini dinamiche che incanalano i comportamenti in una direzione determinata. E’ evidente che alcune idee verranno accettate con maggiore facilità di altre e questo avverrà nella misura in cui il loro rapporto con il paesaggio in questione risulterà più stretto. Tali idee saranno sempre sperimentate con quel sapore di identificazione personale e di verità che è proprio dell’amore e dell’odio, poiché l’esperienza  interna  che suscitano è indubitabile per chi la vive e questo pur quando non risulti oggettivamente giustificata.
Facciamo qualche esempio. Le paure che hanno accompagnato certi popoli si sono tradotte in immagini nelle quali, in un futuro mitico, tutto finirà per crollare: cadranno gli dei, i cieli, l’arcobaleno e quanto è stato costruito; l’aria diventerà irrespirabile e le acque tossiche; il grande albero del mondo, responsabile dell’equilibrio universale, morirà e con esso gli animali e gli esseri umani. Nei momenti critici tali popoli hanno tradotto le loro tensioni in inquietanti immagini di contaminazione e di perdita delle proprie basi. Ma sono proprio queste tensioni che li hanno spinti, nei loro momenti migliori, a “costruire” con solidità in numerosi campi. Altri popoli si sono formati nella  penosa esperienza interna  dell’esclusione e dell’abbandono di un paradiso perduto ma ciò li ha anche spinti a migliorare e a conoscersi instancabilmente per giungere al centro del sapere. Certi popoli sembrano segnati dalla colpa per avere ucciso i propri dèi ed altri si sentono oppressi da una visione multiforme e sempre cangiante; ma ciò ha spinto i primi a redimersi attraverso l’azione e gli altri a ricercare, con la riflessione intellettuale, una verità permanente e trascendente. Con ciò non intendiamo dar corso a degli stereotipi perché queste frammentarie osservazioni non possono certo spiegare la straordinaria ricchezza del comportamento umano; vogliamo piuttosto allargare la visione che abitualmente si ha dei miti e della funzione psicosociale da essi  svolta.
Oggi le culture separate tendono a scomparire e, con esse, i  loro patrimoni mitici. Negli appartenenti a qualunque comunità della terra si colgono oggi profondi cambiamenti per il fatto che essi subiscono non solo l’impatto dell’informazione e della tecnologia ma anche quello di usanze, abitudini, prospettive, immagini e comportamenti, il cui luogo di provenienza non risulta granché importante ai fini di una loro accettazione. A questo processo di trasferimento non potranno sottrarsi le angosce, le speranze e le proposte di soluzione dei problemi che, pur trovando espressione in teorie o formulazioni dall’apparenza più o meno scientifica, portano nel proprio seno antichi miti ignoti al cittadino del mondo attuale.
Per noi, accostarci ai grandi miti ha significato affrontare lo studio dei popoli utilizzando,  come punto di vista, la comprensione delle loro credenze fondamentali. Non ci siamo occupati in questo lavoro di quei bei racconti e leggende che descrivono le gesta di semidei e di mortali straordinari. Ci siamo limitati ai miti il cui nucleo è occupato dagli dei, anche se l’umanità svolge un ruolo importante nella trama del racconto. Per quanto ci è stato possibile non abbiamo mescolato ai miti questioni di culto, ritenendo ormai superata la tendenza a confondere la religione pratica e quotidiana con le immagini plastiche della mitologia poetica. D’altra parte, abbiamo cercato di prendere a riferimento i testi originali delle varie mitologie, scelta che ci ha procurato numerosi problemi. Su questo punto, diremo a titolo di esempio che la ricchezza mitica delle civiltà cretese e micenea è stata compressa in un generico capitolo sui “Miti greco-romani” proprio perché non disponiamo dei testi originali di quelle culture. Lo stesso vale per i miti africani, oceanici e, in una certa misura, americani. Tuttavia i progressi che antropologi e specialisti di mitologia comparata stanno compiendo ci fanno pensare ad un futuro lavoro che avrà per tema le loro scoperte.
Il titolo del presente volume, Miti-radice universali, richiede qualche chiarimento. Abbiamo considerato “radice” ogni mito il cui argomento centrale, pur nel passaggio da un popolo all’altro, abbia conservato una certa stabilità, e questo anche quando si siano modificati, col passare del tempo, i nomi dei personaggi, i loro attributi ed il paesaggio in cui si inserisce l’azione. L’argomento centrale, quello che definiamo “nucleo di ideazione”, può subire anch’esso dei mutamenti, ma ad una velocità  minore rispetto a quella degli elementi che possiamo considerare accessori. D’altronde, non avendo preso in considerazione la variazione del sistema secondario di rappresentazione, non ci è sembrato risolutivo individuare il preciso momento della nascita di un mito. Una scelta opposta a quella da noi fatta non potrebbe trovare punti d’appoggio  dato che l’origine di un  mito non può essere ascritta ad un momento determinato. In tutti i casi sono i documenti e le diverse vestigia storiche, che danno conto dell’esistenza del mito, a ricadere all’interno di una databilità più o meno precisa.
D’altra parte la costruzione di un mito non sembra corrispondere ad un solo autore ma a generazioni successive di autori e commentatori che si sono basati su un materiale di per sé instabile e dinamico. Le scoperte a cui attualmente approdano l’archeologia, l’antropologia e la filologia, che fungono da ausiliarie della mitologia comparata, ci mostrano come alcuni miti, che consideravamo originari di una certa cultura, appartengano invece a culture precedenti o contemporanee a quella in esame che di queste aveva subito l’influenza.
Coerentemente a quanto detto fin qui, non ci siamo preoccupati granché di collocare i miti in ordine cronologico; ci siamo piuttosto interessati a disporli secondo l’importanza che sembrano aver assunto in una cultura determinata, anche nel caso in cui questa risultasse posteriore ad un’altra nella quale lo stesso nucleo di ideazione risultava già attivo. Risulta chiaro, d’altra parte, che il presente lavoro non vuole essere né una raccolta né una comparazione né una classificazione dei miti sulla base di categorie prestabilite, ma piuttosto una evidenziazione di nuclei di ideazione durevoli e operanti in diverse latitudini e in diversi momenti storici. A ciò si potrà obiettare che la trasformazione dei contesti culturali fa mutare anche le espressioni e i significati che si manifestano all’interno di essi. Ma proprio per questo abbiamo preso in considerazione miti che hanno assunto una grande importanza in una cultura e in un momento determinati, anche se sono esistiti in altre circostanze ma senza assumere una funzione psicosociale rilevante.
Riguardo al fatto che alcuni miti, pur mostrando consistenti somiglianze, si siano manifestati in punti apparentemente scollegati, sarà opportuno verificare accuratamente se tale collegamento storico sia effettivamente mancato. In questo campo i progressi sono molto rapidi e oggi nessuno può più affermare, per esempio,  che le culture d’America siano del tutto estranee a quelle d’Asia. Si potrà obiettare che i popoli d’Asia, quando  hanno migrato attraverso lo stretto di Bering, più di ventimila anni fa, non possedevano dei miti sviluppati e che questi hanno assunto un loro carattere solo quando le tribù si sono stabilizzate. Ma, in ogni caso, la situazione pre-mitica era simile nei popoli che stiamo considerando e tra essi forse si potranno rintracciare dei caratteri che, pur avendo avuto sviluppi difformi nelle diverse situazioni culturali, rimandano a modelli comuni. Comunque siano andate le cose, la discussione non è conclusa e sarebbe prematuro accettare in via definitiva una delle ipotesi che oggi si confrontano. Per quanto ci riguarda, poco importa l’originalità del mito, quel che conta è, come abbiamo già osservato, l’importanza che questo riveste in una determinata cultura.
Abbiamo riportato i testi originali in un carattere diverso da quello utilizzato per i testi da noi redatti affinché i primi possano essere apprezzati in tutta la loro ricchezza. In ogni opera di ricostruzione storica (e questa, in qualche misura, lo è), si fa in modo che l’originale possa essere chiaramente distinto  da ciò che è stato aggiunto in seguito; qui riteniamo che l’accorgimento del carattere differenziato assolva perfettamente ad una tale funzione. Quanto al fatto che nel nostro testo si cerchi di conservare un certo stile comune a quello dell’originale, non ci sembra che ciò rappresenti un danno per l’opera: crediamo piuttosto che ne faciliti la comprensione. Le citazioni dalle fonti consultate e le note che abbiamo aggiunto rispondono alla stessa esigenza.
= Conferenza dell'Autore=
''Conferenza realizzata presso il Centro Culturale S. Martin, Buenos Aires, Argentina, il 18 Aprile 1991
''
Prima di iniziare il commento a Miti-radice universali vorrei chiarire i motivi che mi hanno spinto a scriverlo ed i rapporti che  lo legano alle mie opere precedenti.
In primo luogo i motivi.
Mi sono avvicinato ai miti di differenti culture con una intenzione più prossima a quella propria della psicologia sociale che non a quella che motiva le religioni comparate, l’etnologia o l’antropologia. La domanda che mi sono posto è questa: perché non rivedere i sistemi di ideazione più antichi che non ci coinvolgono direttamente in modo da poter apprendere, proprio grazie a questa  distanza,  qualcosa di più su noi stessi? Perché non introdurci in un mondo di credenze a noi estranee che hanno accompagnato altri modi di porsi nei confronti della  vita? Perché non essere il più possibile flessibili e cercare di comprendere, grazie a questo tipo di  riferimenti, come mai le nostre credenze fondamentali oggi vacillino? Sono state queste le inquietudini che mi hanno motivato a prendere in esame varie produzioni mitologiche. Naturalmente, per cercare di arrivare alla base delle credenze che hanno operato in tempi e luoghi tanto differenti, avrei potuto utilizzare, come  filo conduttore, la storia delle istituzioni o quella delle idee o quella dell’arte; in nessun caso, però,  avrei avuto a disposizione fenomeni tanto puri e diretti quanto quelli che ci offre la mitologia.
Il progetto iniziale del libro consisteva in un’esposizione dei miti di diversi popoli accompagnata da brevi commenti o note che non costituissero un’interferenza od un’interpretazione. Ma appena mi sono messo all’opera mi sono trovato di fronte a varie difficoltà. In primo luogo ho dovuto ridurre l’ampiezza del mio piano: volendo rifarmi a testi la cui veridicità fosse storicamente comprovata, sono stato costretto a scartarne vari che raccoglievano materiale magari più antico o che lo commentavano e che per queste ed altre ragioni presentavano numerosi difetti. Ovviamente  non avrei potuto risolvere in nessun modo questo problema, quand’anche mi fossi limitato a prendere in esame  i soli testi fonte, quelli cioè in base ai quali una certa informazione è giunta fino a noi. D’altra parte ho anche scelto di non ricorrere alle tradizioni orali che  gli odierni ricercatori raccolgono nelle collettività chiuse. Sono giunto alla conclusione di escludere questa soluzione avendo osservato l’insorgere di alcune complicazioni metodologiche, delle quali farò un esempio citando Mircea Eliade. In Aspects du Mythe, questo autore afferma: “Fra i popoli primitivi i miti che si riferiscono ad una futura fine del mondo sono paradossalmente poco numerosi se comparati ai miti che ne narrano la fine nel passato. Come fa notare Lehmann questa stranezza è dovuta forse al fatto che gli etnologi nelle loro ricerche non hanno formulato domande adeguate. A volte è difficile precisare se il mito si riferisca ad una catastrofe passata o futura. Secondo la testimonianza di E. H. Man, gli Andamani credevano che dopo la fine del mondo avrebbe fatto la sua comparsa una nuova umanità, la quale avrebbe goduto di una condizione paradisiaca; non ci sarebbero più state malattie, né vecchiaia, né morte. I morti sarebbero risuscitati dopo la catastrofe. Ma secondo R. Brown, Man avrebbe combinato tra loro varie versioni raccolte da informatori differenti. In realtà, precisa Brown, si tratta di un mito che racconta la fine e la nuova creazione del mondo; ma è un mito che si riferisce al passato e non al futuro. Poiché, secondo quanto fa notare Lehmann, la lingua andamana non possiede il tempo futuro, ne discende che è difficile decidere se si tratti di un avvenimento passato o futuro”. In queste osservazioni di Eliade sono presenti perlomeno tre problematiche che i ricercatori hanno messo in luce partendo dall’analisi di uno stesso mito: 1. La possibilità che le ricerche condotte sui soggetti di una collettività siano state mal formulate; 2. Che le fonti informative non siano omogenee; 3. Che la lingua nella quale è stata fornita l’informazione non contempli il tempo verbale necessario per comprendere un mito temporale.
Inconvenienti di questo tipo, ai quali se ne sono sommati molti altri, mi hanno impedito di approfittare della grande massa di informazioni che ci viene attualmente fornita dai ricercatori sul campo. Di conseguenza non ho potuto includere nel mio piano i miti dell’Africa nera né quelli dei popoli dell’Australia o della Polinesia e neanche quelli dell’America del Sud.
Quando poi ho rivolto la mia attenzione ai testi più antichi ho potuto verificare quanto grandi fossero le differenze all’interno della documentazione pervenutaci. Ad esempio per la cultura sumero-accadica possiamo contare sul grande poema di Gilgamesh che è un’opera pressoché completa mentre nessuno degli altri frammenti che ci sono giunti ha un’ampiezza comparabile ad essa. Al contrario la cultura indiana ci sorprende per l’enorme quantità di opere tramandateci. Per raggiungere un minimo di equilibrio, ho “estratto” dalla mitologia indiana alcuni piccoli “campioni” che avessero un’estensione pari a quella dei materiali disponibili appartenenti alla cultura sumero-accadica.  Ho ripetuto lo stesso procedimento di riduzione dei materiali sovrabbondanti tramandatici da altri popoli, sempre prendendo come  modello di riferimento il materiale  sumero-accadico ed assiro-babilonese. In questo modo ho potuto presentare al lettore i miti, a mio giudizio più significativi, di dieci culture differenti.
Date queste premesse, devo riconoscere che l’opera che ne è risultata è assai incompleta; tuttavia mi sembra che  essa sia essenzialmente riuscita a mettere in luce un aspetto molto importante del sistema di credenze storiche. Mi riferisco a ciò che chiamo “mito-radice”, termine questo con cui indico quel nucleo di ideazione mitico che, nonostante le deformazioni e le trasformazioni dello scenario nel quale ha dispiegato la sua azione e nonostante le variazioni dei nomi, dei personaggi e degli attributi secondari di questi ultimi, è passato di popolo in popolo conservando più o meno intatto il suo argomento centrale e  grazie a ciò è riuscito a raggiungere una dimensione universale. Il doppio carattere di “radice” e di “universale” ha costituito  il mio criterio centrale di scelta, e sulla base di esso ho individuato alcuni miti che  rispondessero appunto a queste due condizioni. Ciò non significa che non riconosca l’esistenza di altri nuclei mitici di questo stesso tipo che non ho presentato in questa sommaria raccolta. A questo punto credo di aver risposto alla domanda sui motivi che mi hanno indotto a scrivere questo libro; mi sembra anche di aver descritto le difficoltà incontrate  per raggiungere gli obiettivi che mi ero inizialmente proposto.
Restano però ancora alcuni punti da chiarire. Mi riferisco alla seconda domanda posta all’inizio, quella relativa ai rapporti che legano quest’opera ai miei lavori precedenti.
Molti di voi avranno sicuramente letto [[Lo Sguardo Interno]] e forse anche [[Il Paesaggio Interno]] ed [[Il Paesaggio Umano]]. Magari ricorderanno anche che questi tre volumetti, scritti in momenti differenti, sono stati poi raccolti in un unico libro dal titolo di [[Umanizzare la Terra]]. In quest’opera l’utilizzo della prosa poetica mi ha permesso di effettuare uno spostamento progressivo del punto di vista: partendo da un mondo onirico, personale, caricato di simboli ed allegorie, il libro finiva per aprirsi sulla sfera interpersonale, sul mondo sociale e  storico. In realtà alla base di questo scritto stava la stessa concezione poi sviluppata in opere posteriori, anche se con trattamenti e stili differenti. Nelle Esperienze guidate una serie di racconti brevi mi ha permesso di “montare” degli scenari nei quali passavo in rassegna diversi problemi della vita quotidiana. Dopo un’“entrata” costruita con immagini alquanto irreali, il lettore passava attraverso una sequenza di scene nelle quali si trovava ad affrontare in forma allegorica le proprie difficoltà. Quindi appariva un “nodo” letterario che faceva aumentare la tensione generale della scena; seguiva uno scioglimento di tale nodo e, finalmente, un’“uscita” o finale positivo. Le idee centrali delle Esperienze guidate erano queste: 1. Non solo nei sogni ma anche nella vita quotidiana appaiono immagini che sono l’espressione in forma  allegorica di tensioni profonde; nella vita quotidiana non si presta però troppa attenzione a tali fenomeni: in questo caso si tratta di fantasie (i sogni ad occhi aperti) e di divagazioni le quali, trasformandosi in immagini, trasportano cariche psichiche che svolgono funzioni molto importanti per la vita. 2. Le immagini permettono di muovere il corpo in direzioni specifiche. Ma non esistono soltanto immagini di tipo visivo: a ciascun senso esterno corrisponde un diverso tipo di immagine. Le immagini, attivando il corpo, permettono alla coscienza di aprirsi al mondo. Ma esistono anche sensi interni e quindi anche immagini ad essi correlate, la cui carica si dispiega verso l’interno, e che pertanto fanno diminuire o aumentare le tensioni nell’intracorpo. 3. La biografia, vale a dire la memoria globale di una persona, agisce anch’essa attraverso immagini che  risultano associate alle tensioni ed ai climi affettivi insieme ai quali erano state “impresse” nella memoria. 4. L’azione della memoria biografica è continua, ininterrotta in ciascuno di noi;  pertanto percepire qualcosa  non significa captare passivamente il mondo che ci si presenta: in ogni nuova percezione è sempre presente l’azione delle immagini biografiche che funzionano come una sorta di “paesaggio” costruitosi nel passato. Questo significa che, quando svolgiamo le nostre attività quotidiane, “copriamo” sempre il mondo con i nostri sogni ad occhi aperti, le nostre compulsioni e le nostre aspirazioni più profonde. 5. Il comportamento, tanto quello  attivo che quello inibito nei confronti del mondo, è sempre strettamente correlato alle immagini, per cui la trasformazione di queste costituisce un elemento-chiave nella dinamica dei cambiamenti di condotta. Se risulta  possibile trasformare le immagini e trasferire le cariche psichiche ad esse associate, una tale trasformazione sarà necessariamente accompagnata da cambiamenti di condotta. 6. Nei sogni propriamente detti e nei sogni ad occhi aperti, nelle opere d’arte come nei miti compaiono immagini che corrispondono alle tensioni vitali e alle “biografie”, siano esse individuali o di popoli interi. Tali immagini hanno la capacità di determinare l’orientamento della condotta, anch’essa individuale o collettiva a seconda del caso. Le sei idee appena enunciate erano alla base delle Esperienze guidate ed è per questo che molti lettori avranno ritrovato in esse parecchio materiale proveniente da antiche leggende, storie e miti (come spiegano le note), materiale che abbiamo rielaborato ed adattato al lettore singolo (o ad un piccolo circolo di lettori nel caso in cui le Esperienze vengano praticate collettivamente).
Passiamo alla mia opera più recente, Contributi al pensiero. A nessuno sfugge che il suo è lo stile del saggio filosofico. Nei due lavori che lo compongono viene studiata in un caso  la Psicologia dell’immagine (in una quasi-teoria della coscienza) e nell’altro  il tema della Storia. Gli oggetti della ricerca sono sicuramente molto diversi ma in definitiva il tema del “paesaggio” e quello degli antepredicativi epocali, vale a dire delle credenze, costituiscono  il tratto in comune dei due testi. Come si vede Miti-radice universali mantiene una stretta relazione con le opere precedenti anche se qui l’enfasi si sposta  sulle immagini collettive e  la forma espositiva risulta ancora diversa. A questo proposito vorrei aggiungere che non considero il momento che stiamo vivendo adatto ad una produzione sistematica e stilisticamente uniforme; credo, al contrario, che il momento attuale richieda una continua diversificazione per poter far giungere a destinazione  le nuove idee.
Miti-radice universali si fonda sulla stessa concezione delle altre mie opere e credo che qualunque mio nuovo libro manterrà questa continuità ideologica, per quanto possa affrontare temi differenti e per quanto lo stile ed il genere espositivo possano ulteriormente cambiare. E con questo mi sembra di avere spiegato sinteticamente i motivi che hanno dato luogo al presente scritto e i rapporti che lo legano ad altri testi precedenti.
Sgombrato dunque il campo, entriamo nel vivo dei Miti-radice.
Della parola “mito” si è fatto vario uso. A partire da Senofane, duemilacinquecento anni or sono, il termine fu utilizzato per  indicare (squalificandoli) quei racconti di Omero ed Esiodo che non si riferivano a verità provate o accettabili. In seguito si stabilì una contrapposizione tra  “mythos” da una parte e  “logos” e  “historia”, dall’altra, parole  queste ultime con le quali si indicavano rispettivamente la ragione delle cose ed i fatti realmente accaduti. Poco a poco il mito perdette il suo carattere sacro e finì per essere assimilato in grande misura alla favola od all’invenzione letteraria, e questo  nonostante trattasse di quegli stessi dèi nei quali si continuava a credere. Furono proprio i Greci a tentare di comprendere per primi in modo soddisfacente il fenomeno del mito. Alcuni autori svilupparono una sorta di metodo di interpretazione allegorica sulla base del quale cercarono di scoprire le ragioni  nascoste sotto la copertura del mito. Procedendo in questo modo, arrivarono a credere che tali opere di fantasia costituissero delle spiegazioni rudimentali di leggi fisiche o di fenomeni naturali. Questo metodo fu esteso dallo gnosticismo alessandrino e quindi dalla patristica cristiana ai fenomeni che oggi chiameremmo psichici. Queste scuole cercarono infatti di comprendere i miti anche come allegorizzazioni  di realtà proprie dell’anima. Ma i Greci  svilupparono anche un secondo metodo interpretativo, che fu applicato allo studio dei miti che raccontavano gli albori della civiltà  con lo scopo di scoprire in essi gli eventi storici realmente accaduti in quei periodi.  I miti delle origini vennero interpretati come dei confusi ricordi relativi alle gesta di antichi eroi che erano stati elevati dalla loro condizione mortale a quella di dèi. Di conseguenza, si ammise che quei miti conferivano un’eccessiva dignità ad eventi storici che, in realtà, erano stati molto più modesti. Queste due vie cui si ricorse per comprendere il mito (naturalmente ne sono esistite delle altre) sono arrivate fino a noi. In entrambi i casi, è sottintesa l’idea che nel mito i fatti siano “deformati” e che questa deformazione produca una sorta d’incanto nella mentalità ingenua. È vero che i miti furono utilizzati dai grandi tragici greci e che, in certa misura, il genere teatrale è derivato dalla rappresentazione di avvenimenti mitici, ma in questo caso l’incanto generato nello spettatore era di tipo estetico: la storia mitica  muoveva a commozione per la sua qualità artistica e non perché si credesse in ciò che veniva  rappresentato. Ma il mito assume un senso del tutto nuovo nelle tradizioni orfica e pitagorica e nelle correnti neoplatoniche, le quali  gli attribuiscono il potere di trasformare lo spirito di chi entra in contatto con esso. Rappresentando scene mitiche, gli orfici pretendevano di produrre una “catarsis”, cioè una pulizia interiore, che avrebbe permesso loro di accedere a comprensioni più profonde nell’ordine delle idee e delle emozioni. Come si può vedere, tutte le interpretazioni che abbiamo descritto sono arrivate fino a noi e formano parte del bagaglio di idee di cui si servono, senza porsi troppe domande, sia il pubblico in generale che gli specialisti. A dire il vero i miti greci hanno subito in Occidente una lunga eclisse e solo nel Rinascimento (grazie agli umanisti) ed in seguito nell’epoca delle rivoluzioni europee hanno ripreso, per così dire, il loro cammino. L’ammirazione per i classici spinse gli studiosi a rivolgersi alla loro fonte ellenica: questo ritorno influenzò profondamente le arti e così i miti greci tornarono ad esercitare la loro influenza. Trasformandosi ancora una volta, essi arrivarono a radicarsi nelle fondamenta stesse delle nuove discipline che si dedicavano a studiare i comportamenti umani. La Psicologia del profondo, che nasce in un Austria pervasa di neoclassicismo decadente, risulta particolarmente influenzata da quelle antiche correnti  orfiche e neoplatoniche di cui dicevamo, anche se è già forte in essa l’attrazione per l’irrazionalismo romantico. Non risulta affatto strano, allora, che i temi di Edipo, di Elettra e simili siano stati tratti dai tragici greci e che sulla base di essi siano state elaborate delle spiegazioni del funzionamento mentale ed inoltre che  si siano utilizzate le  tecniche catartiche di ricreazione drammatica seguendo la  linea della concezione orfica.
In un altro ordine d’idee non risulterà affatto superfluo chiarire adeguatamente le differenze tra mito, da un lato, e leggenda, saga, racconto e favola, dall’altro. Nel caso della leggenda, la storia viene  effettivamente deformata dalla tradizione; la letteratura epica è estremamente ricca di esempi a questo proposito. Per quanto attiene al racconto, autori come de Vries sostengono che esso si allontana dalla leggenda per il fatto di introdurre al suo interno elementi del folklore, con i quali si dà colore alla narrazione. Orbene, la saga si avvicina al racconto ma se ne differenzia perché arriva quasi sempre ad un esito tragico, mentre il racconto termina con un lieto fine.
In ogni caso tanto nella saga pessimista come nel racconto ottimista spesso vengono introdotti elementi mitici desacralizzati. Un
genere molto differente è quello della favola, che sotto la veste fantastica nasconde un insegnamento morale. Queste distinzioni elementari ci servono ad evitare possibili confusioni ed a mettere in luce il significato con cui  noi intendiamo il mito: nel mito noi sempre ritroviamo la presenza degli dèi e delle loro azioni e questo anche quando esse si realizzano attraverso uomini, eroi o semidei. Pertanto, quando parliamo di miti, ci riferiamo ad un ambito toccato dalla presenza divina, presenza  che viene ritenuta certa e che influenza tutti gli elementi costitutivi di tale ambito. E’ invece molto diverso riferirsi agli dèi collocandoli in un’atmosfera desacralizzata, in un ambito dove il  credere in essi sia diventato, per esempio,  puro piacere estetico. Questo punto marca una discriminante  netta tra le presentazioni attualmente in voga delle diverse mitologie (che descrivono le credenze antiche in maniera esteriore e formale) e l’esposizione sacralizzata, che si muove all’“interno” dell’atmosfera in cui il mito fu creato. Nel nostro lavoro abbiamo seguito quest’ultimo approccio. Da qui nasce il nostro rispetto per i testi originali, che abbiamo sì completato in caso di lacune o per esigenze di comprensione ma ricorrendo sempre ad un carattere tipografico differente o a eventuali note per evidenziare ciò che non corrispondeva al testo originale. In effetti, in Miti-radice universali ci sono molti esempi di questo tipo e a chi li volesse interpretare come una nuova creazione parallela dirò semplicemente che il lettore ha sempre sott’occhio il testo originale differenziato dall’altro di cui siamo autori.
Continuando in tema di precisazioni, sarà opportuno mettere in chiaro che non ci siamo addentrati nella religione viva a cui i miti presentati erano correlati, né tanto meno negli aspetti rituali o cerimoniali. Non abbiamo preso in esame alcuno dei miti del cristianesimo, dell’islam o del buddismo; e questo perché ci è stato sufficiente presentare alcuni miti profondi dell’ebraismo, dell’induismo e dello zoroastrismo per comprendere quale potente influenza le immagini di queste ultime religioni abbiano esercitato sulle prime tre. Credo che questa scelta renda perfettamente l’idea di mito-radice  universale.
C’è ancora da dire che nell’epoca contemporanea e nel linguaggio comune la parola “mito” indica due realtà distinte. Da una parte i racconti fantastici su divinità appartenenti a diverse culture e dall’altra quelle cose in cui si crede tenacemente ma che in realtà sono false. Chiaramente entrambi i significati hanno in comune l’idea che certe credenze siano fortemente radicate e che dimostrare razionalmente la loro falsità sia un’operazione molto difficile. Ci sorprende il fatto che illustri pensatori dell’antichità abbiano potuto credere in cose che i nostri bambini ascoltano come favole prima di addormentarsi. La credenza che la terra fosse piatta o quella nel geocentrismo fanno spuntare sulle nostre labbra un pietoso sorriso e questo anche quando intendiamo che tali teorie erano solo dei miti che servivano a spiegare  una realtà sulla quale il pensiero scientifico non aveva detto la sua ultima parola. Ed in modo analogo, quando consideriamo alcune delle cose in cui credevamo fino a pochi anni fa, non ci rimane che arrossire per la nostra ingenuità, anche se proprio in quello stesso momento  possiamo venir presi da nuovi miti  senza  accorgerci che ci sta accadendo il medesimo fenomeno precedentemente vissuto.
D’altronde, in quest’epoca di vertiginosa trasformazione del nostro mondo abbiamo assistito allo spiazzamento di alcune credenze sull’individuo e la società che nemmeno cinque anni prima venivano difese come verità indiscusse. E dico “credenze” in luogo di teorie o dottrine perché mi interessa far risaltare il nucleo costituito dagli antepredicativi, dai pregiudizi che operano prima della formulazione di uno schema più o meno scientifico. Così come le novità tecnologiche vengono accompagnate da espressioni quali “favoloso!” o “incredibile!”, che sono l’equivalente orale dell’applauso, allo stesso modo ci stiamo abituando ad ascoltare il diffondersi del termine “incredibile!” riferito ai cambiamenti politici, alla caduta di ideologie complete, alla condotta di leader e di formatori di opinione, ai comportamenti delle società. Ma questo secondo “incredibile!” non equivale esattamente allo stato d’animo che si manifesta nei confronti del prodigio tecnico, bensì riflette sorpresa e sconcerto rispetto a fenomeni che non si credevano possibili. Gran parte dei nostri contemporanei credevano davvero che le cose stessero in modo diverso e che sarebbero andate diversamente.
Dobbiamo, insomma, riconoscere che è esistito un rilevante consumo di miti e che ciò ha avuto non poche  conseguenze nel modo di porsi nei confronti della vita, nel modo di affrontare l’esistenza. Devo avvertire che considero i miti non come qualcosa di assolutamente falso ma, al contrario, come delle verità psicologiche che possono corrispondere o meno alla percezione del mondo nel quale ci tocca vivere. A questo aggiungerò che tali credenze non sono affatto degli schemi passivi ma  piuttosto delle tensioni e dei climi emotivi che, plasmandosi in immagini, finiscono per diventare delle forze capaci di indirizzare l’attività individuale o collettiva. Determinate credenze, indipendentemente dagli aspetti etici o paradigmatici che a volte le accompagnano, possiedono per la loro stessa natura una grande forza referenziale. Non ci sfugge che il credere negli dèi sia qualcosa di molto diverso dalle credenze desacralizzate forti  ma, pur facendo salve le differenze, riconosciamo in entrambi i casi strutture comuni.
Le credenze deboli con le quali ci muoviamo nella vita quotidiana sono facilmente rimpiazzabili una volta dimostrato che la nostra percezione dei fatti era sbagliata. In cambio, quando parliamo di credenze forti sulle quali costruiamo la nostra interpretazione globale delle cose, i nostri gusti e le nostre idiosincrasie più generali, la nostra irrazionale scala di valori, stiamo toccando la struttura del nostro mito personale, mito che non siamo disposti a mettere veramente in discussione perché esso ci coinvolge totalmente. Dirò di più: quando uno di questi miti cade, sopravviene una crisi profonda che ci fa  sentire come foglie in balia del vento. Questi miti, personali o collettivi, orientano la nostra condotta e della loro azione profonda possiamo solo avvertire certe immagini che ci guidano in una direzione determinata.
Ogni momento storico possiede le sue credenze fondamentali forti ed una struttura mitica collettiva, sacralizzata o no, che serve a dare coesione agli insiemi umani, a dar  loro identità e partecipazione all’interno di  un ambito comune. Mettere in discussione i miti fondamentali di un’epoca significa esporsi ad una reazione irrazionale di intensità variabile, che dipende dalla  forza della critica e dal radicamento della credenza toccata. Ma, com’è naturale, le generazioni si succedono ed i momenti storici cambiano; ed allora ciò che un volta era oggetto di rifiuto finisce per essere accettato con naturalezza come se fosse la più pura delle verità. Nel momento attuale mettere in discussione il grande mito del denaro significa suscitare una reazione che impedisce il dialogo: immediatamente il nostro interlocutore si difenderà affermando, ad esempio: “Come è possibile che  il denaro sia un mito, dal momento che è necessario per vivere!”; o meglio: “Un mito è qualcosa di falso, qualcosa che non si vede; invece il denaro è una realtà tangibile che fa muovere le cose”, eccetera. Non  servirà a nulla spiegare la differenza tra la tangibilità del denaro e gli intangibili che si crede di poter raggiungere grazie ad esso; né servirà far notare la distanza tra un segno rappresentativo del valore attribuito alle cose e la carica psicologica che quello stesso segno possiede. Se lo faremo, diventeremo immediatamente oggetto di sospetto. Il nostro oppositore comincerà subito ad osservarci con uno sguardo freddo, a  scrutare i nostri vestiti per calcolarne il prezzo ed  esorcizzare così l’eresia; indubbiamente, infatti, li avremo pagati in denaro... poi  si chiederà quanto pesiamo, quante calorie giornaliere consumiamo, in che posto viviamo e via di seguito. A quel punto potremo cercare di ammorbidire il nostro discorso aggiungendo qualcosa che suoni più o meno così: “In realtà bisognerebbe distinguere tra il denaro che serve per vivere e il denaro non necessario”... ma questa concessione sarà in ogni caso tardiva. In fin dei conti esistono le banche, gli istituti di credito, la moneta nelle sue differenti forme. Vale a dire, diverse “realtà” che testimoniano un’effettività che noi apparentemente neghiamo. Ma a ben vedere in questo racconto pittoresco non abbiamo mai negato l’efficacia strumentale del denaro, al contrario: abbiamo finito per dotarlo di un grande potere psicologico, visto che abbiamo convenuto che a quest’oggetto si attribuisce più magia di quanta realmente ne abbia. Esso ci darà la felicità ed una certa dose di immortalità fintanto che ci impedirà di preoccuparci del problema della morte. Questo mito del denaro oggi desacralizzato ha però spesso operato in prossimità, per così dire, degli dei. Tutti sappiamo che la parola “moneta” deriva da Juno Moneta, Giunone Ammonitrice, di fianco al cui tempio gli antichi  romani coniavano appunto le monete. A Juno Moneta si chiedeva abbondanza di beni, ma per i credenti più importante del denaro era Giunone, dalla cui buona volontà esso derivava. Anche oggi i veri credenti  chiedono al loro dio beni di diverso tipo e, pertanto, anche denaro: ma se sono dei veri credenti, la  divinità  resterà al vertice della loro scala di valori. Il denaro in quanto feticcio ha subito svariate trasformazioni. Per molto tempo, perlomeno in Occidente, il denaro ha fatto aggio sull’oro, metallo misterioso, scarso e attraente per via delle sue qualità speciali. L’alchimia medievale si dedicò a produrlo artificialmente. Era un oro ancora sacralizzato al quale si attribuiva il potere di moltiplicarsi all’infinito, che serviva da medicamento universale e che, oltre alla ricchezza, procurava la longevità. Fu sempre l’oro a spingere a tante affannose ricerche nelle terre d’America. E non mi riferisco solamente alla cosiddetta “febbre dell’oro”, che portò avventurieri e colonizzatori negli Stati Uniti, quanto all’Eldorado, cercato da tanti conquistatori, che veniva anche associato a miti minori, quale la fonte della giovinezza.
Un mito radicato con tanta forza fa “ruotare” intorno al proprio nucleo dei miti minori. Così, nell’esempio del quale ci stiamo occupando, numerosi oggetti risultano avvolti come da un’aureola di cariche provenienti dal nucleo centrale del mito. L’automobile, che ci è utile, è anche un simbolo del denaro, dello “status”, che ci apre le porte ad ancora più denaro. Su questo punto Greeley osserva: “E’ sufficiente visitare il salone annuale dell’automobile per riconoscervi una manifestazione religiosa profondamente ritualizzata. I colori, le luci, la musica, la riverenza degli adoratori, la presenza delle sacerdotesse del tempio (le hostess), lo sfarzo ed il lusso, lo sperpero di denaro, le masse compatte: tutto ciò, in un altra civiltà, costituirebbe un uffizio autenticamente liturgico. Il culto dell’automobile sacra ha i suoi fedeli ed i suoi iniziati. Lo gnostico non attendeva il responso dell’oracolo con più impazienza dell’adoratore dell’automobile che aspetta le prime indiscrezioni sui nuovi modelli. E’ in quel momento del ciclo periodico annuale che i pontefici del culto (i venditori di automobili) assumono un’importanza nuova, parallelamente al crearsi di una moltitudine ansiosa che aspetta impazientemente l’avvento di una nuova forma di salvezza”. Ovviamente non sono d’accordo con il peso che quest’autore attribuisce alla devozione verso il feticcio-automobile; ma, ad ogni modo, la descrizione che ne dà ha il pregio di avvicinarsi alla comprensione del tema mitico relativamente ad un oggetto contemporaneo. In realtà si tratta di un mito desacralizzato, per cui anche se vi si potrà forse rinvenire una struttura simile a quella del mito sacro, tale struttura sarà beninteso priva delle caratteristiche fondamentali di forza autonoma, pensante e indipendente, tipiche di quello. Dato che l’autore si rifà ai riti periodici annuali, la sua descrizione dovrebbe valere anche per le celebrazioni dei compleanni, per il Capodanno, per la consegna degli Oscar od analoghi riti civili, che non implicano un’atmosfera religiosa come nel caso dei miti sacralizzati. Certo, l’aver messo in chiaro la differenza fra mito e cerimoniale sarebbe stato qui di grande importanza, anche se la cosa sarebbe andata al di là dei nostri obiettivi immediati; sarebbe stato anche interessante tracciare i confini fra l’universo delle volontà mitiche e quello delle forze magiche, dove la preghiera è sostituita dal rito d’incantamento; ma anche questo tema sarebbe risultato  al di là dei limiti del presente studio.
Quando abbiamo preso in esame uno dei miti desacralizzati centrali di quest’epoca (mi riferisco al denaro), lo abbiamo inteso come il nucleo di un sistema di ideazione; e sono certo che gli ascoltatori non avranno immaginato qualcosa di simile al modello atomico di Bohr, dove  il nucleo costituisce la massa centrale intorno alla quale girano gli elettroni. Nella nostra descrizione il nucleo di un sistema di ideazione informa delle sue peculiari caratteristiche la gran parte della vita di una persona. La condotta, le aspirazioni e i principali timori sono in rapporto con questo tema centrale. Ma la cosa va ancora oltre: tutta un’interpretazione del mondo e degli eventi è collegata a tale nucleo. Nel nostro esempio la storia dell’umanità assumerà un carattere economico; e questa storia avrà fine, in modo paradisiaco, quando avranno fine i conflitti che mettono in discussione la supremazia del denaro.
In conclusione abbiamo fatto riferimento ad uno dei miti desacralizzati centrali allo scopo di avvicinarci al possibile funzionamento dei miti sacri di cui parliamo in Miti-radice universali.
Ad ogni modo una grande distanza separa i due sistemi mitici, poiché in uno il numinoso, il divino, manca completamente, il che crea differenze difficili da superare. Sia come sia, le cose nel mondo d’oggi stanno cambiando a grande velocità e mi sembra di percepire che si è chiuso un momento storico e che se ne sta aprendo un altro, nel quale  sembrano farsi strada una nuova scala di valori ed una nuova sensibilità. Tuttavia non potrei giurare che gli dèi si stiano nuovamente avvicinando all’uomo. I teologi contemporanei soffrono quell’angoscia per l’assenza di Dio di cui parla Buber. Angoscia che Nietzsche, dopo la morte di Dio, non poté superare. Il punto è che nei miti antichi c’è stato troppo antropomorfismo e che forse quello che chiamiamo “Dio” si esprime senza voce attraverso il Destino dell’umanità.
Se mi si domandasse chiaramente se attendo il sorgere di nuovi miti direi che questo è proprio ciò che sta succedendo. Chiedo solo che queste forze tremende che la Storia scatena servano a generare una civiltà planetaria e veramente umana, nella quale la diseguaglianza e l’intolleranza siano abolite per sempre. Allora, come dice un vecchio libro, “le armi saranno trasformate in strumenti di lavoro”.
=Edizioni=
Prima edizione spagnola del 1990 con ...
=Edizioni italiane=
Il libro ha una edizione italiana di [[Multimage]] del 2010. E' inoltre incluso nell'edizione del 2000, sempre di [[Multimage]], del [[Opere Complete Volume I|Volume I delle Opere Complete]] dell'Autore.
=  Traduzioni=
E' stato tradotto in inglese, francese, italiano.
= Links =
Scheda su Multimage http://www.multimage.org/libri/miti-radice-universali
Pagina dove scaricare le varie traduzioni http://www.silo.net/collected_works/universal_root_myths
[[categoria:bibliografia]]
[[categoria:bibliografia]]
[[categoria:work in progress]]
[[categoria:work in progress]]
[[categoria:libri di Silo]]
[[es: Mitos Raíces Universales]]

Versione attuale delle 21:50, 29 ott 2015

Mitiradiceuniversali.jpg

Libro di Silo incluso nel Volume I delle Opere Complete. Scritto e pubblicato per la prima volta in spagnolo nel 1990

spiegazione

Miti-radice universali, è stato scritto nel 1990. L’obiettivo dell’opera è quello di comparare i sistemi di tensione fondamentali sperimentati dai popoli che hanno creato i grandi miti.

Da tempi remoti è in atto lo sforzo per definire il mito, la leggenda e la favola; per separare la narrazione o il racconto poco attendibile dalla descrizione veritiera. Molto lavoro è stato fatto per dimostrare che i miti sono l’abito simbolico che riveste verità fondamentali, oppure che costituiscono delle trasposizioni, nel senso che forze cosmiche vi divengono esseri dotati di intenzione. Si è anche detto che si tratta di evemerismi, cioè di racconti in cui personaggi di dubbia storicità vengono innalzati alle categorie di eroi o dei. Sono state formulate varie teorie per mostrare come a tali deformazioni della ragione soggiacciano delle realtà oggettive. Si è indagato per scoprire il conflitto psicologico profondo in questi racconti che ora vengono considerati delle proiezioni. Un lavoro così enorme è in ogni caso risultato utile perché ci ha aiutato a comprendere, quasi in condizioni di laboratorio, come i miti recenti lottino con quelli antichi per conquistare uno spazio proprio. Quanto stiamo affermando non deve essere inteso in chiave sarcastica, come se volessimo ridurre le teorie al livello dei miti. A ben vedere, però, persino le teorie scientifiche possono staccarsi dall’ambito che è loro proprio e “prendere il volo” senza essere dimostrate: ma quando lo fanno è perché in precedenza sono riuscite a collocarsi sul piano delle credenze sociali e ad acquisire la forza plastica dell’immagine, la quale possiede un’importantissima funzione di riferimento e risulta decisiva nell’orientare il comportamento. E nella nuova immagine che irrompe sulla scena, possiamo riconoscere l’avatar di un antico mito che acquista una nuova giovinezza grazie al modificarsi del paesaggio, non solo geografico ma anche sociale, a cui è necessario dare una risposta perché i tempi lo impongono. Il sistema di tensioni vitali a cui è sottoposto un popolo si traduce in immagini; questo, tuttavia, non basta a spiegare ogni cosa, a meno che non si ragioni nei termini rozzi di un meccanismo sfida-risposta. E’ necessario comprendere come in ogni cultura, in ogni gruppo, in ogni individuo, esista una memoria, un patrimonio storico, in base alle quali il mondo in cui si vive viene interpretato. Per noi, tale interpretazione è ciò che configura il paesaggio, il quale, pur essendo percepito come qualcosa di esterno, risulta pervaso dalle tensioni vitali che si creano in un determinato momento storico o si sono create molto tempo prima e che, come elemento residuale, risultano parte dello schema interpretativo della realtà presente. Scoprire le tensioni storiche fondamentali di un determinato popolo ci permette di avvicinarci alla comprensione dei suoi ideali, delle sue aspirazioni e delle sue speranze; queste, però, non si trovano nel suo orizzonte come fredde idee ma piuttosto come immagini dinamiche che incanalano i comportamenti in una direzione determinata. E’ evidente che alcune idee verranno accettate con maggiore facilità di altre e questo avverrà nella misura in cui il loro rapporto con il paesaggio in questione risulterà più stretto. Tali idee saranno sempre sperimentate con quel sapore di identificazione personale e di verità che è proprio dell’amore e dell’odio, poiché l’esperienza interna che suscitano è indubitabile per chi la vive e questo pur quando non risulti oggettivamente giustificata. Facciamo qualche esempio. Le paure che hanno accompagnato certi popoli si sono tradotte in immagini nelle quali, in un futuro mitico, tutto finirà per crollare: cadranno gli dei, i cieli, l’arcobaleno e quanto è stato costruito; l’aria diventerà irrespirabile e le acque tossiche; il grande albero del mondo, responsabile dell’equilibrio universale, morirà e con esso gli animali e gli esseri umani. Nei momenti critici tali popoli hanno tradotto le loro tensioni in inquietanti immagini di contaminazione e di perdita delle proprie basi. Ma sono proprio queste tensioni che li hanno spinti, nei loro momenti migliori, a “costruire” con solidità in numerosi campi. Altri popoli si sono formati nella penosa esperienza interna dell’esclusione e dell’abbandono di un paradiso perduto ma ciò li ha anche spinti a migliorare e a conoscersi instancabilmente per giungere al centro del sapere. Certi popoli sembrano segnati dalla colpa per avere ucciso i propri dèi ed altri si sentono oppressi da una visione multiforme e sempre cangiante; ma ciò ha spinto i primi a redimersi attraverso l’azione e gli altri a ricercare, con la riflessione intellettuale, una verità permanente e trascendente. Con ciò non intendiamo dar corso a degli stereotipi perché queste frammentarie osservazioni non possono certo spiegare la straordinaria ricchezza del comportamento umano; vogliamo piuttosto allargare la visione che abitualmente si ha dei miti e della funzione psicosociale da essi svolta.

Oggi le culture separate tendono a scomparire e, con esse, i  loro patrimoni mitici. Negli appartenenti a qualunque comunità della terra si colgono oggi profondi cambiamenti per il fatto che essi subiscono non solo l’impatto dell’informazione e della tecnologia ma anche quello di usanze, abitudini, prospettive, immagini e comportamenti, il cui luogo di provenienza non risulta granché importante ai fini di una loro accettazione. A questo processo di trasferimento non potranno sottrarsi le angosce, le speranze e le proposte di soluzione dei problemi che, pur trovando espressione in teorie o formulazioni dall’apparenza più o meno scientifica, portano nel proprio seno antichi miti ignoti al cittadino del mondo attuale.

Per noi, accostarci ai grandi miti ha significato affrontare lo studio dei popoli utilizzando, come punto di vista, la comprensione delle loro credenze fondamentali. Non ci siamo occupati in questo lavoro di quei bei racconti e leggende che descrivono le gesta di semidei e di mortali straordinari. Ci siamo limitati ai miti il cui nucleo è occupato dagli dei, anche se l’umanità svolge un ruolo importante nella trama del racconto. Per quanto ci è stato possibile non abbiamo mescolato ai miti questioni di culto, ritenendo ormai superata la tendenza a confondere la religione pratica e quotidiana con le immagini plastiche della mitologia poetica. D’altra parte, abbiamo cercato di prendere a riferimento i testi originali delle varie mitologie, scelta che ci ha procurato numerosi problemi. Su questo punto, diremo a titolo di esempio che la ricchezza mitica delle civiltà cretese e micenea è stata compressa in un generico capitolo sui “Miti greco-romani” proprio perché non disponiamo dei testi originali di quelle culture. Lo stesso vale per i miti africani, oceanici e, in una certa misura, americani. Tuttavia i progressi che antropologi e specialisti di mitologia comparata stanno compiendo ci fanno pensare ad un futuro lavoro che avrà per tema le loro scoperte. Il titolo del presente volume, Miti-radice universali, richiede qualche chiarimento. Abbiamo considerato “radice” ogni mito il cui argomento centrale, pur nel passaggio da un popolo all’altro, abbia conservato una certa stabilità, e questo anche quando si siano modificati, col passare del tempo, i nomi dei personaggi, i loro attributi ed il paesaggio in cui si inserisce l’azione. L’argomento centrale, quello che definiamo “nucleo di ideazione”, può subire anch’esso dei mutamenti, ma ad una velocità minore rispetto a quella degli elementi che possiamo considerare accessori. D’altronde, non avendo preso in considerazione la variazione del sistema secondario di rappresentazione, non ci è sembrato risolutivo individuare il preciso momento della nascita di un mito. Una scelta opposta a quella da noi fatta non potrebbe trovare punti d’appoggio dato che l’origine di un mito non può essere ascritta ad un momento determinato. In tutti i casi sono i documenti e le diverse vestigia storiche, che danno conto dell’esistenza del mito, a ricadere all’interno di una databilità più o meno precisa. D’altra parte la costruzione di un mito non sembra corrispondere ad un solo autore ma a generazioni successive di autori e commentatori che si sono basati su un materiale di per sé instabile e dinamico. Le scoperte a cui attualmente approdano l’archeologia, l’antropologia e la filologia, che fungono da ausiliarie della mitologia comparata, ci mostrano come alcuni miti, che consideravamo originari di una certa cultura, appartengano invece a culture precedenti o contemporanee a quella in esame che di queste aveva subito l’influenza. Coerentemente a quanto detto fin qui, non ci siamo preoccupati granché di collocare i miti in ordine cronologico; ci siamo piuttosto interessati a disporli secondo l’importanza che sembrano aver assunto in una cultura determinata, anche nel caso in cui questa risultasse posteriore ad un’altra nella quale lo stesso nucleo di ideazione risultava già attivo. Risulta chiaro, d’altra parte, che il presente lavoro non vuole essere né una raccolta né una comparazione né una classificazione dei miti sulla base di categorie prestabilite, ma piuttosto una evidenziazione di nuclei di ideazione durevoli e operanti in diverse latitudini e in diversi momenti storici. A ciò si potrà obiettare che la trasformazione dei contesti culturali fa mutare anche le espressioni e i significati che si manifestano all’interno di essi. Ma proprio per questo abbiamo preso in considerazione miti che hanno assunto una grande importanza in una cultura e in un momento determinati, anche se sono esistiti in altre circostanze ma senza assumere una funzione psicosociale rilevante. Riguardo al fatto che alcuni miti, pur mostrando consistenti somiglianze, si siano manifestati in punti apparentemente scollegati, sarà opportuno verificare accuratamente se tale collegamento storico sia effettivamente mancato. In questo campo i progressi sono molto rapidi e oggi nessuno può più affermare, per esempio, che le culture d’America siano del tutto estranee a quelle d’Asia. Si potrà obiettare che i popoli d’Asia, quando hanno migrato attraverso lo stretto di Bering, più di ventimila anni fa, non possedevano dei miti sviluppati e che questi hanno assunto un loro carattere solo quando le tribù si sono stabilizzate. Ma, in ogni caso, la situazione pre-mitica era simile nei popoli che stiamo considerando e tra essi forse si potranno rintracciare dei caratteri che, pur avendo avuto sviluppi difformi nelle diverse situazioni culturali, rimandano a modelli comuni. Comunque siano andate le cose, la discussione non è conclusa e sarebbe prematuro accettare in via definitiva una delle ipotesi che oggi si confrontano. Per quanto ci riguarda, poco importa l’originalità del mito, quel che conta è, come abbiamo già osservato, l’importanza che questo riveste in una determinata cultura. Abbiamo riportato i testi originali in un carattere diverso da quello utilizzato per i testi da noi redatti affinché i primi possano essere apprezzati in tutta la loro ricchezza. In ogni opera di ricostruzione storica (e questa, in qualche misura, lo è), si fa in modo che l’originale possa essere chiaramente distinto da ciò che è stato aggiunto in seguito; qui riteniamo che l’accorgimento del carattere differenziato assolva perfettamente ad una tale funzione. Quanto al fatto che nel nostro testo si cerchi di conservare un certo stile comune a quello dell’originale, non ci sembra che ciò rappresenti un danno per l’opera: crediamo piuttosto che ne faciliti la comprensione. Le citazioni dalle fonti consultate e le note che abbiamo aggiunto rispondono alla stessa esigenza.


Conferenza dell'Autore

Conferenza realizzata presso il Centro Culturale S. Martin, Buenos Aires, Argentina, il 18 Aprile 1991


Prima di iniziare il commento a Miti-radice universali vorrei chiarire i motivi che mi hanno spinto a scriverlo ed i rapporti che lo legano alle mie opere precedenti.

In primo luogo i motivi.

Mi sono avvicinato ai miti di differenti culture con una intenzione più prossima a quella propria della psicologia sociale che non a quella che motiva le religioni comparate, l’etnologia o l’antropologia. La domanda che mi sono posto è questa: perché non rivedere i sistemi di ideazione più antichi che non ci coinvolgono direttamente in modo da poter apprendere, proprio grazie a questa distanza, qualcosa di più su noi stessi? Perché non introdurci in un mondo di credenze a noi estranee che hanno accompagnato altri modi di porsi nei confronti della vita? Perché non essere il più possibile flessibili e cercare di comprendere, grazie a questo tipo di riferimenti, come mai le nostre credenze fondamentali oggi vacillino? Sono state queste le inquietudini che mi hanno motivato a prendere in esame varie produzioni mitologiche. Naturalmente, per cercare di arrivare alla base delle credenze che hanno operato in tempi e luoghi tanto differenti, avrei potuto utilizzare, come filo conduttore, la storia delle istituzioni o quella delle idee o quella dell’arte; in nessun caso, però, avrei avuto a disposizione fenomeni tanto puri e diretti quanto quelli che ci offre la mitologia.

Il progetto iniziale del libro consisteva in un’esposizione dei miti di diversi popoli accompagnata da brevi commenti o note che non costituissero un’interferenza od un’interpretazione. Ma appena mi sono messo all’opera mi sono trovato di fronte a varie difficoltà. In primo luogo ho dovuto ridurre l’ampiezza del mio piano: volendo rifarmi a testi la cui veridicità fosse storicamente comprovata, sono stato costretto a scartarne vari che raccoglievano materiale magari più antico o che lo commentavano e che per queste ed altre ragioni presentavano numerosi difetti. Ovviamente non avrei potuto risolvere in nessun modo questo problema, quand’anche mi fossi limitato a prendere in esame i soli testi fonte, quelli cioè in base ai quali una certa informazione è giunta fino a noi. D’altra parte ho anche scelto di non ricorrere alle tradizioni orali che gli odierni ricercatori raccolgono nelle collettività chiuse. Sono giunto alla conclusione di escludere questa soluzione avendo osservato l’insorgere di alcune complicazioni metodologiche, delle quali farò un esempio citando Mircea Eliade. In Aspects du Mythe, questo autore afferma: “Fra i popoli primitivi i miti che si riferiscono ad una futura fine del mondo sono paradossalmente poco numerosi se comparati ai miti che ne narrano la fine nel passato. Come fa notare Lehmann questa stranezza è dovuta forse al fatto che gli etnologi nelle loro ricerche non hanno formulato domande adeguate. A volte è difficile precisare se il mito si riferisca ad una catastrofe passata o futura. Secondo la testimonianza di E. H. Man, gli Andamani credevano che dopo la fine del mondo avrebbe fatto la sua comparsa una nuova umanità, la quale avrebbe goduto di una condizione paradisiaca; non ci sarebbero più state malattie, né vecchiaia, né morte. I morti sarebbero risuscitati dopo la catastrofe. Ma secondo R. Brown, Man avrebbe combinato tra loro varie versioni raccolte da informatori differenti. In realtà, precisa Brown, si tratta di un mito che racconta la fine e la nuova creazione del mondo; ma è un mito che si riferisce al passato e non al futuro. Poiché, secondo quanto fa notare Lehmann, la lingua andamana non possiede il tempo futuro, ne discende che è difficile decidere se si tratti di un avvenimento passato o futuro”. In queste osservazioni di Eliade sono presenti perlomeno tre problematiche che i ricercatori hanno messo in luce partendo dall’analisi di uno stesso mito: 1. La possibilità che le ricerche condotte sui soggetti di una collettività siano state mal formulate; 2. Che le fonti informative non siano omogenee; 3. Che la lingua nella quale è stata fornita l’informazione non contempli il tempo verbale necessario per comprendere un mito temporale. Inconvenienti di questo tipo, ai quali se ne sono sommati molti altri, mi hanno impedito di approfittare della grande massa di informazioni che ci viene attualmente fornita dai ricercatori sul campo. Di conseguenza non ho potuto includere nel mio piano i miti dell’Africa nera né quelli dei popoli dell’Australia o della Polinesia e neanche quelli dell’America del Sud. Quando poi ho rivolto la mia attenzione ai testi più antichi ho potuto verificare quanto grandi fossero le differenze all’interno della documentazione pervenutaci. Ad esempio per la cultura sumero-accadica possiamo contare sul grande poema di Gilgamesh che è un’opera pressoché completa mentre nessuno degli altri frammenti che ci sono giunti ha un’ampiezza comparabile ad essa. Al contrario la cultura indiana ci sorprende per l’enorme quantità di opere tramandateci. Per raggiungere un minimo di equilibrio, ho “estratto” dalla mitologia indiana alcuni piccoli “campioni” che avessero un’estensione pari a quella dei materiali disponibili appartenenti alla cultura sumero-accadica. Ho ripetuto lo stesso procedimento di riduzione dei materiali sovrabbondanti tramandatici da altri popoli, sempre prendendo come modello di riferimento il materiale sumero-accadico ed assiro-babilonese. In questo modo ho potuto presentare al lettore i miti, a mio giudizio più significativi, di dieci culture differenti. Date queste premesse, devo riconoscere che l’opera che ne è risultata è assai incompleta; tuttavia mi sembra che essa sia essenzialmente riuscita a mettere in luce un aspetto molto importante del sistema di credenze storiche. Mi riferisco a ciò che chiamo “mito-radice”, termine questo con cui indico quel nucleo di ideazione mitico che, nonostante le deformazioni e le trasformazioni dello scenario nel quale ha dispiegato la sua azione e nonostante le variazioni dei nomi, dei personaggi e degli attributi secondari di questi ultimi, è passato di popolo in popolo conservando più o meno intatto il suo argomento centrale e grazie a ciò è riuscito a raggiungere una dimensione universale. Il doppio carattere di “radice” e di “universale” ha costituito il mio criterio centrale di scelta, e sulla base di esso ho individuato alcuni miti che rispondessero appunto a queste due condizioni. Ciò non significa che non riconosca l’esistenza di altri nuclei mitici di questo stesso tipo che non ho presentato in questa sommaria raccolta. A questo punto credo di aver risposto alla domanda sui motivi che mi hanno indotto a scrivere questo libro; mi sembra anche di aver descritto le difficoltà incontrate per raggiungere gli obiettivi che mi ero inizialmente proposto. Restano però ancora alcuni punti da chiarire. Mi riferisco alla seconda domanda posta all’inizio, quella relativa ai rapporti che legano quest’opera ai miei lavori precedenti.

Molti di voi avranno sicuramente letto Lo Sguardo Interno e forse anche Il Paesaggio Interno ed Il Paesaggio Umano. Magari ricorderanno anche che questi tre volumetti, scritti in momenti differenti, sono stati poi raccolti in un unico libro dal titolo di Umanizzare la Terra. In quest’opera l’utilizzo della prosa poetica mi ha permesso di effettuare uno spostamento progressivo del punto di vista: partendo da un mondo onirico, personale, caricato di simboli ed allegorie, il libro finiva per aprirsi sulla sfera interpersonale, sul mondo sociale e storico. In realtà alla base di questo scritto stava la stessa concezione poi sviluppata in opere posteriori, anche se con trattamenti e stili differenti. Nelle Esperienze guidate una serie di racconti brevi mi ha permesso di “montare” degli scenari nei quali passavo in rassegna diversi problemi della vita quotidiana. Dopo un’“entrata” costruita con immagini alquanto irreali, il lettore passava attraverso una sequenza di scene nelle quali si trovava ad affrontare in forma allegorica le proprie difficoltà. Quindi appariva un “nodo” letterario che faceva aumentare la tensione generale della scena; seguiva uno scioglimento di tale nodo e, finalmente, un’“uscita” o finale positivo. Le idee centrali delle Esperienze guidate erano queste: 1. Non solo nei sogni ma anche nella vita quotidiana appaiono immagini che sono l’espressione in forma allegorica di tensioni profonde; nella vita quotidiana non si presta però troppa attenzione a tali fenomeni: in questo caso si tratta di fantasie (i sogni ad occhi aperti) e di divagazioni le quali, trasformandosi in immagini, trasportano cariche psichiche che svolgono funzioni molto importanti per la vita. 2. Le immagini permettono di muovere il corpo in direzioni specifiche. Ma non esistono soltanto immagini di tipo visivo: a ciascun senso esterno corrisponde un diverso tipo di immagine. Le immagini, attivando il corpo, permettono alla coscienza di aprirsi al mondo. Ma esistono anche sensi interni e quindi anche immagini ad essi correlate, la cui carica si dispiega verso l’interno, e che pertanto fanno diminuire o aumentare le tensioni nell’intracorpo. 3. La biografia, vale a dire la memoria globale di una persona, agisce anch’essa attraverso immagini che risultano associate alle tensioni ed ai climi affettivi insieme ai quali erano state “impresse” nella memoria. 4. L’azione della memoria biografica è continua, ininterrotta in ciascuno di noi; pertanto percepire qualcosa non significa captare passivamente il mondo che ci si presenta: in ogni nuova percezione è sempre presente l’azione delle immagini biografiche che funzionano come una sorta di “paesaggio” costruitosi nel passato. Questo significa che, quando svolgiamo le nostre attività quotidiane, “copriamo” sempre il mondo con i nostri sogni ad occhi aperti, le nostre compulsioni e le nostre aspirazioni più profonde. 5. Il comportamento, tanto quello attivo che quello inibito nei confronti del mondo, è sempre strettamente correlato alle immagini, per cui la trasformazione di queste costituisce un elemento-chiave nella dinamica dei cambiamenti di condotta. Se risulta possibile trasformare le immagini e trasferire le cariche psichiche ad esse associate, una tale trasformazione sarà necessariamente accompagnata da cambiamenti di condotta. 6. Nei sogni propriamente detti e nei sogni ad occhi aperti, nelle opere d’arte come nei miti compaiono immagini che corrispondono alle tensioni vitali e alle “biografie”, siano esse individuali o di popoli interi. Tali immagini hanno la capacità di determinare l’orientamento della condotta, anch’essa individuale o collettiva a seconda del caso. Le sei idee appena enunciate erano alla base delle Esperienze guidate ed è per questo che molti lettori avranno ritrovato in esse parecchio materiale proveniente da antiche leggende, storie e miti (come spiegano le note), materiale che abbiamo rielaborato ed adattato al lettore singolo (o ad un piccolo circolo di lettori nel caso in cui le Esperienze vengano praticate collettivamente).

Passiamo alla mia opera più recente, Contributi al pensiero. A nessuno sfugge che il suo è lo stile del saggio filosofico. Nei due lavori che lo compongono viene studiata in un caso la Psicologia dell’immagine (in una quasi-teoria della coscienza) e nell’altro il tema della Storia. Gli oggetti della ricerca sono sicuramente molto diversi ma in definitiva il tema del “paesaggio” e quello degli antepredicativi epocali, vale a dire delle credenze, costituiscono il tratto in comune dei due testi. Come si vede Miti-radice universali mantiene una stretta relazione con le opere precedenti anche se qui l’enfasi si sposta sulle immagini collettive e la forma espositiva risulta ancora diversa. A questo proposito vorrei aggiungere che non considero il momento che stiamo vivendo adatto ad una produzione sistematica e stilisticamente uniforme; credo, al contrario, che il momento attuale richieda una continua diversificazione per poter far giungere a destinazione le nuove idee.

Miti-radice universali si fonda sulla stessa concezione delle altre mie opere e credo che qualunque mio nuovo libro manterrà questa continuità ideologica, per quanto possa affrontare temi differenti e per quanto lo stile ed il genere espositivo possano ulteriormente cambiare. E con questo mi sembra di avere spiegato sinteticamente i motivi che hanno dato luogo al presente scritto e i rapporti che lo legano ad altri testi precedenti.

Sgombrato dunque il campo, entriamo nel vivo dei Miti-radice.

Della parola “mito” si è fatto vario uso. A partire da Senofane, duemilacinquecento anni or sono, il termine fu utilizzato per indicare (squalificandoli) quei racconti di Omero ed Esiodo che non si riferivano a verità provate o accettabili. In seguito si stabilì una contrapposizione tra “mythos” da una parte e “logos” e “historia”, dall’altra, parole queste ultime con le quali si indicavano rispettivamente la ragione delle cose ed i fatti realmente accaduti. Poco a poco il mito perdette il suo carattere sacro e finì per essere assimilato in grande misura alla favola od all’invenzione letteraria, e questo nonostante trattasse di quegli stessi dèi nei quali si continuava a credere. Furono proprio i Greci a tentare di comprendere per primi in modo soddisfacente il fenomeno del mito. Alcuni autori svilupparono una sorta di metodo di interpretazione allegorica sulla base del quale cercarono di scoprire le ragioni nascoste sotto la copertura del mito. Procedendo in questo modo, arrivarono a credere che tali opere di fantasia costituissero delle spiegazioni rudimentali di leggi fisiche o di fenomeni naturali. Questo metodo fu esteso dallo gnosticismo alessandrino e quindi dalla patristica cristiana ai fenomeni che oggi chiameremmo psichici. Queste scuole cercarono infatti di comprendere i miti anche come allegorizzazioni di realtà proprie dell’anima. Ma i Greci svilupparono anche un secondo metodo interpretativo, che fu applicato allo studio dei miti che raccontavano gli albori della civiltà con lo scopo di scoprire in essi gli eventi storici realmente accaduti in quei periodi. I miti delle origini vennero interpretati come dei confusi ricordi relativi alle gesta di antichi eroi che erano stati elevati dalla loro condizione mortale a quella di dèi. Di conseguenza, si ammise che quei miti conferivano un’eccessiva dignità ad eventi storici che, in realtà, erano stati molto più modesti. Queste due vie cui si ricorse per comprendere il mito (naturalmente ne sono esistite delle altre) sono arrivate fino a noi. In entrambi i casi, è sottintesa l’idea che nel mito i fatti siano “deformati” e che questa deformazione produca una sorta d’incanto nella mentalità ingenua. È vero che i miti furono utilizzati dai grandi tragici greci e che, in certa misura, il genere teatrale è derivato dalla rappresentazione di avvenimenti mitici, ma in questo caso l’incanto generato nello spettatore era di tipo estetico: la storia mitica muoveva a commozione per la sua qualità artistica e non perché si credesse in ciò che veniva rappresentato. Ma il mito assume un senso del tutto nuovo nelle tradizioni orfica e pitagorica e nelle correnti neoplatoniche, le quali gli attribuiscono il potere di trasformare lo spirito di chi entra in contatto con esso. Rappresentando scene mitiche, gli orfici pretendevano di produrre una “catarsis”, cioè una pulizia interiore, che avrebbe permesso loro di accedere a comprensioni più profonde nell’ordine delle idee e delle emozioni. Come si può vedere, tutte le interpretazioni che abbiamo descritto sono arrivate fino a noi e formano parte del bagaglio di idee di cui si servono, senza porsi troppe domande, sia il pubblico in generale che gli specialisti. A dire il vero i miti greci hanno subito in Occidente una lunga eclisse e solo nel Rinascimento (grazie agli umanisti) ed in seguito nell’epoca delle rivoluzioni europee hanno ripreso, per così dire, il loro cammino. L’ammirazione per i classici spinse gli studiosi a rivolgersi alla loro fonte ellenica: questo ritorno influenzò profondamente le arti e così i miti greci tornarono ad esercitare la loro influenza. Trasformandosi ancora una volta, essi arrivarono a radicarsi nelle fondamenta stesse delle nuove discipline che si dedicavano a studiare i comportamenti umani. La Psicologia del profondo, che nasce in un Austria pervasa di neoclassicismo decadente, risulta particolarmente influenzata da quelle antiche correnti orfiche e neoplatoniche di cui dicevamo, anche se è già forte in essa l’attrazione per l’irrazionalismo romantico. Non risulta affatto strano, allora, che i temi di Edipo, di Elettra e simili siano stati tratti dai tragici greci e che sulla base di essi siano state elaborate delle spiegazioni del funzionamento mentale ed inoltre che si siano utilizzate le tecniche catartiche di ricreazione drammatica seguendo la linea della concezione orfica.

In un altro ordine d’idee non risulterà affatto superfluo chiarire adeguatamente le differenze tra mito, da un lato, e leggenda, saga, racconto e favola, dall’altro. Nel caso della leggenda, la storia viene effettivamente deformata dalla tradizione; la letteratura epica è estremamente ricca di esempi a questo proposito. Per quanto attiene al racconto, autori come de Vries sostengono che esso si allontana dalla leggenda per il fatto di introdurre al suo interno elementi del folklore, con i quali si dà colore alla narrazione. Orbene, la saga si avvicina al racconto ma se ne differenzia perché arriva quasi sempre ad un esito tragico, mentre il racconto termina con un lieto fine.

In ogni caso tanto nella saga pessimista come nel racconto ottimista spesso vengono introdotti elementi mitici desacralizzati. Un genere molto differente è quello della favola, che sotto la veste fantastica nasconde un insegnamento morale. Queste distinzioni elementari ci servono ad evitare possibili confusioni ed a mettere in luce il significato con cui noi intendiamo il mito: nel mito noi sempre ritroviamo la presenza degli dèi e delle loro azioni e questo anche quando esse si realizzano attraverso uomini, eroi o semidei. Pertanto, quando parliamo di miti, ci riferiamo ad un ambito toccato dalla presenza divina, presenza che viene ritenuta certa e che influenza tutti gli elementi costitutivi di tale ambito. E’ invece molto diverso riferirsi agli dèi collocandoli in un’atmosfera desacralizzata, in un ambito dove il credere in essi sia diventato, per esempio, puro piacere estetico. Questo punto marca una discriminante netta tra le presentazioni attualmente in voga delle diverse mitologie (che descrivono le credenze antiche in maniera esteriore e formale) e l’esposizione sacralizzata, che si muove all’“interno” dell’atmosfera in cui il mito fu creato. Nel nostro lavoro abbiamo seguito quest’ultimo approccio. Da qui nasce il nostro rispetto per i testi originali, che abbiamo sì completato in caso di lacune o per esigenze di comprensione ma ricorrendo sempre ad un carattere tipografico differente o a eventuali note per evidenziare ciò che non corrispondeva al testo originale. In effetti, in Miti-radice universali ci sono molti esempi di questo tipo e a chi li volesse interpretare come una nuova creazione parallela dirò semplicemente che il lettore ha sempre sott’occhio il testo originale differenziato dall’altro di cui siamo autori.

Continuando in tema di precisazioni, sarà opportuno mettere in chiaro che non ci siamo addentrati nella religione viva a cui i miti presentati erano correlati, né tanto meno negli aspetti rituali o cerimoniali. Non abbiamo preso in esame alcuno dei miti del cristianesimo, dell’islam o del buddismo; e questo perché ci è stato sufficiente presentare alcuni miti profondi dell’ebraismo, dell’induismo e dello zoroastrismo per comprendere quale potente influenza le immagini di queste ultime religioni abbiano esercitato sulle prime tre. Credo che questa scelta renda perfettamente l’idea di mito-radice universale.

C’è ancora da dire che nell’epoca contemporanea e nel linguaggio comune la parola “mito” indica due realtà distinte. Da una parte i racconti fantastici su divinità appartenenti a diverse culture e dall’altra quelle cose in cui si crede tenacemente ma che in realtà sono false. Chiaramente entrambi i significati hanno in comune l’idea che certe credenze siano fortemente radicate e che dimostrare razionalmente la loro falsità sia un’operazione molto difficile. Ci sorprende il fatto che illustri pensatori dell’antichità abbiano potuto credere in cose che i nostri bambini ascoltano come favole prima di addormentarsi. La credenza che la terra fosse piatta o quella nel geocentrismo fanno spuntare sulle nostre labbra un pietoso sorriso e questo anche quando intendiamo che tali teorie erano solo dei miti che servivano a spiegare una realtà sulla quale il pensiero scientifico non aveva detto la sua ultima parola. Ed in modo analogo, quando consideriamo alcune delle cose in cui credevamo fino a pochi anni fa, non ci rimane che arrossire per la nostra ingenuità, anche se proprio in quello stesso momento possiamo venir presi da nuovi miti senza accorgerci che ci sta accadendo il medesimo fenomeno precedentemente vissuto.

D’altronde, in quest’epoca di vertiginosa trasformazione del nostro mondo abbiamo assistito allo spiazzamento di alcune credenze sull’individuo e la società che nemmeno cinque anni prima venivano difese come verità indiscusse. E dico “credenze” in luogo di teorie o dottrine perché mi interessa far risaltare il nucleo costituito dagli antepredicativi, dai pregiudizi che operano prima della formulazione di uno schema più o meno scientifico. Così come le novità tecnologiche vengono accompagnate da espressioni quali “favoloso!” o “incredibile!”, che sono l’equivalente orale dell’applauso, allo stesso modo ci stiamo abituando ad ascoltare il diffondersi del termine “incredibile!” riferito ai cambiamenti politici, alla caduta di ideologie complete, alla condotta di leader e di formatori di opinione, ai comportamenti delle società. Ma questo secondo “incredibile!” non equivale esattamente allo stato d’animo che si manifesta nei confronti del prodigio tecnico, bensì riflette sorpresa e sconcerto rispetto a fenomeni che non si credevano possibili. Gran parte dei nostri contemporanei credevano davvero che le cose stessero in modo diverso e che sarebbero andate diversamente.

Dobbiamo, insomma, riconoscere che è esistito un rilevante consumo di miti e che ciò ha avuto non poche conseguenze nel modo di porsi nei confronti della vita, nel modo di affrontare l’esistenza. Devo avvertire che considero i miti non come qualcosa di assolutamente falso ma, al contrario, come delle verità psicologiche che possono corrispondere o meno alla percezione del mondo nel quale ci tocca vivere. A questo aggiungerò che tali credenze non sono affatto degli schemi passivi ma piuttosto delle tensioni e dei climi emotivi che, plasmandosi in immagini, finiscono per diventare delle forze capaci di indirizzare l’attività individuale o collettiva. Determinate credenze, indipendentemente dagli aspetti etici o paradigmatici che a volte le accompagnano, possiedono per la loro stessa natura una grande forza referenziale. Non ci sfugge che il credere negli dèi sia qualcosa di molto diverso dalle credenze desacralizzate forti ma, pur facendo salve le differenze, riconosciamo in entrambi i casi strutture comuni. Le credenze deboli con le quali ci muoviamo nella vita quotidiana sono facilmente rimpiazzabili una volta dimostrato che la nostra percezione dei fatti era sbagliata. In cambio, quando parliamo di credenze forti sulle quali costruiamo la nostra interpretazione globale delle cose, i nostri gusti e le nostre idiosincrasie più generali, la nostra irrazionale scala di valori, stiamo toccando la struttura del nostro mito personale, mito che non siamo disposti a mettere veramente in discussione perché esso ci coinvolge totalmente. Dirò di più: quando uno di questi miti cade, sopravviene una crisi profonda che ci fa sentire come foglie in balia del vento. Questi miti, personali o collettivi, orientano la nostra condotta e della loro azione profonda possiamo solo avvertire certe immagini che ci guidano in una direzione determinata.

Ogni momento storico possiede le sue credenze fondamentali forti ed una struttura mitica collettiva, sacralizzata o no, che serve a dare coesione agli insiemi umani, a dar loro identità e partecipazione all’interno di un ambito comune. Mettere in discussione i miti fondamentali di un’epoca significa esporsi ad una reazione irrazionale di intensità variabile, che dipende dalla forza della critica e dal radicamento della credenza toccata. Ma, com’è naturale, le generazioni si succedono ed i momenti storici cambiano; ed allora ciò che un volta era oggetto di rifiuto finisce per essere accettato con naturalezza come se fosse la più pura delle verità. Nel momento attuale mettere in discussione il grande mito del denaro significa suscitare una reazione che impedisce il dialogo: immediatamente il nostro interlocutore si difenderà affermando, ad esempio: “Come è possibile che il denaro sia un mito, dal momento che è necessario per vivere!”; o meglio: “Un mito è qualcosa di falso, qualcosa che non si vede; invece il denaro è una realtà tangibile che fa muovere le cose”, eccetera. Non servirà a nulla spiegare la differenza tra la tangibilità del denaro e gli intangibili che si crede di poter raggiungere grazie ad esso; né servirà far notare la distanza tra un segno rappresentativo del valore attribuito alle cose e la carica psicologica che quello stesso segno possiede. Se lo faremo, diventeremo immediatamente oggetto di sospetto. Il nostro oppositore comincerà subito ad osservarci con uno sguardo freddo, a scrutare i nostri vestiti per calcolarne il prezzo ed esorcizzare così l’eresia; indubbiamente, infatti, li avremo pagati in denaro... poi si chiederà quanto pesiamo, quante calorie giornaliere consumiamo, in che posto viviamo e via di seguito. A quel punto potremo cercare di ammorbidire il nostro discorso aggiungendo qualcosa che suoni più o meno così: “In realtà bisognerebbe distinguere tra il denaro che serve per vivere e il denaro non necessario”... ma questa concessione sarà in ogni caso tardiva. In fin dei conti esistono le banche, gli istituti di credito, la moneta nelle sue differenti forme. Vale a dire, diverse “realtà” che testimoniano un’effettività che noi apparentemente neghiamo. Ma a ben vedere in questo racconto pittoresco non abbiamo mai negato l’efficacia strumentale del denaro, al contrario: abbiamo finito per dotarlo di un grande potere psicologico, visto che abbiamo convenuto che a quest’oggetto si attribuisce più magia di quanta realmente ne abbia. Esso ci darà la felicità ed una certa dose di immortalità fintanto che ci impedirà di preoccuparci del problema della morte. Questo mito del denaro oggi desacralizzato ha però spesso operato in prossimità, per così dire, degli dei. Tutti sappiamo che la parola “moneta” deriva da Juno Moneta, Giunone Ammonitrice, di fianco al cui tempio gli antichi romani coniavano appunto le monete. A Juno Moneta si chiedeva abbondanza di beni, ma per i credenti più importante del denaro era Giunone, dalla cui buona volontà esso derivava. Anche oggi i veri credenti chiedono al loro dio beni di diverso tipo e, pertanto, anche denaro: ma se sono dei veri credenti, la divinità resterà al vertice della loro scala di valori. Il denaro in quanto feticcio ha subito svariate trasformazioni. Per molto tempo, perlomeno in Occidente, il denaro ha fatto aggio sull’oro, metallo misterioso, scarso e attraente per via delle sue qualità speciali. L’alchimia medievale si dedicò a produrlo artificialmente. Era un oro ancora sacralizzato al quale si attribuiva il potere di moltiplicarsi all’infinito, che serviva da medicamento universale e che, oltre alla ricchezza, procurava la longevità. Fu sempre l’oro a spingere a tante affannose ricerche nelle terre d’America. E non mi riferisco solamente alla cosiddetta “febbre dell’oro”, che portò avventurieri e colonizzatori negli Stati Uniti, quanto all’Eldorado, cercato da tanti conquistatori, che veniva anche associato a miti minori, quale la fonte della giovinezza.

Un mito radicato con tanta forza fa “ruotare” intorno al proprio nucleo dei miti minori. Così, nell’esempio del quale ci stiamo occupando, numerosi oggetti risultano avvolti come da un’aureola di cariche provenienti dal nucleo centrale del mito. L’automobile, che ci è utile, è anche un simbolo del denaro, dello “status”, che ci apre le porte ad ancora più denaro. Su questo punto Greeley osserva: “E’ sufficiente visitare il salone annuale dell’automobile per riconoscervi una manifestazione religiosa profondamente ritualizzata. I colori, le luci, la musica, la riverenza degli adoratori, la presenza delle sacerdotesse del tempio (le hostess), lo sfarzo ed il lusso, lo sperpero di denaro, le masse compatte: tutto ciò, in un altra civiltà, costituirebbe un uffizio autenticamente liturgico. Il culto dell’automobile sacra ha i suoi fedeli ed i suoi iniziati. Lo gnostico non attendeva il responso dell’oracolo con più impazienza dell’adoratore dell’automobile che aspetta le prime indiscrezioni sui nuovi modelli. E’ in quel momento del ciclo periodico annuale che i pontefici del culto (i venditori di automobili) assumono un’importanza nuova, parallelamente al crearsi di una moltitudine ansiosa che aspetta impazientemente l’avvento di una nuova forma di salvezza”. Ovviamente non sono d’accordo con il peso che quest’autore attribuisce alla devozione verso il feticcio-automobile; ma, ad ogni modo, la descrizione che ne dà ha il pregio di avvicinarsi alla comprensione del tema mitico relativamente ad un oggetto contemporaneo. In realtà si tratta di un mito desacralizzato, per cui anche se vi si potrà forse rinvenire una struttura simile a quella del mito sacro, tale struttura sarà beninteso priva delle caratteristiche fondamentali di forza autonoma, pensante e indipendente, tipiche di quello. Dato che l’autore si rifà ai riti periodici annuali, la sua descrizione dovrebbe valere anche per le celebrazioni dei compleanni, per il Capodanno, per la consegna degli Oscar od analoghi riti civili, che non implicano un’atmosfera religiosa come nel caso dei miti sacralizzati. Certo, l’aver messo in chiaro la differenza fra mito e cerimoniale sarebbe stato qui di grande importanza, anche se la cosa sarebbe andata al di là dei nostri obiettivi immediati; sarebbe stato anche interessante tracciare i confini fra l’universo delle volontà mitiche e quello delle forze magiche, dove la preghiera è sostituita dal rito d’incantamento; ma anche questo tema sarebbe risultato al di là dei limiti del presente studio.

Quando abbiamo preso in esame uno dei miti desacralizzati centrali di quest’epoca (mi riferisco al denaro), lo abbiamo inteso come il nucleo di un sistema di ideazione; e sono certo che gli ascoltatori non avranno immaginato qualcosa di simile al modello atomico di Bohr, dove il nucleo costituisce la massa centrale intorno alla quale girano gli elettroni. Nella nostra descrizione il nucleo di un sistema di ideazione informa delle sue peculiari caratteristiche la gran parte della vita di una persona. La condotta, le aspirazioni e i principali timori sono in rapporto con questo tema centrale. Ma la cosa va ancora oltre: tutta un’interpretazione del mondo e degli eventi è collegata a tale nucleo. Nel nostro esempio la storia dell’umanità assumerà un carattere economico; e questa storia avrà fine, in modo paradisiaco, quando avranno fine i conflitti che mettono in discussione la supremazia del denaro. In conclusione abbiamo fatto riferimento ad uno dei miti desacralizzati centrali allo scopo di avvicinarci al possibile funzionamento dei miti sacri di cui parliamo in Miti-radice universali.

Ad ogni modo una grande distanza separa i due sistemi mitici, poiché in uno il numinoso, il divino, manca completamente, il che crea differenze difficili da superare. Sia come sia, le cose nel mondo d’oggi stanno cambiando a grande velocità e mi sembra di percepire che si è chiuso un momento storico e che se ne sta aprendo un altro, nel quale sembrano farsi strada una nuova scala di valori ed una nuova sensibilità. Tuttavia non potrei giurare che gli dèi si stiano nuovamente avvicinando all’uomo. I teologi contemporanei soffrono quell’angoscia per l’assenza di Dio di cui parla Buber. Angoscia che Nietzsche, dopo la morte di Dio, non poté superare. Il punto è che nei miti antichi c’è stato troppo antropomorfismo e che forse quello che chiamiamo “Dio” si esprime senza voce attraverso il Destino dell’umanità.

Se mi si domandasse chiaramente se attendo il sorgere di nuovi miti direi che questo è proprio ciò che sta succedendo. Chiedo solo che queste forze tremende che la Storia scatena servano a generare una civiltà planetaria e veramente umana, nella quale la diseguaglianza e l’intolleranza siano abolite per sempre. Allora, come dice un vecchio libro, “le armi saranno trasformate in strumenti di lavoro”.

Edizioni

Prima edizione spagnola del 1990 con ...

Edizioni italiane

Il libro ha una edizione italiana di Multimage del 2010. E' inoltre incluso nell'edizione del 2000, sempre di Multimage, del Volume I delle Opere Complete dell'Autore.

Traduzioni

E' stato tradotto in inglese, francese, italiano.

Links

Scheda su Multimage http://www.multimage.org/libri/miti-radice-universali Pagina dove scaricare le varie traduzioni http://www.silo.net/collected_works/universal_root_myths