Esperienze Guidate: differenze tra le versioni
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Il libro è tradotto in catalano, ceco, ebraico, finlandese, francese, inglese, islandese, italiano, olandese, portoghese, russo, tedesco, ungherese. | Il libro è tradotto in catalano, ceco, ebraico, finlandese, francese, inglese, islandese, italiano, olandese, portoghese, russo, tedesco, ungherese. | ||
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Versione delle 11:43, 17 nov 2015
Libro di Silo inserito nel Volume I delle Opere Complete dell'Autore; finito di scrivere nel 1988.
Spiegazione
Esperienze guidate è stato scritto nel 1980 e rivisto nel 1988. Il libro è diviso in due parti. La prima, che comprende dodici racconti ed ha per titolo Narrazioni, contiene il materiale più denso e complesso dell’opera. La seconda, intitolata Giochi di immagini, consta di nove descrizioni più semplici. Questi scritti possono essere valutati in modo diverso a seconda del punto di vista utilizzato. Ad un approccio superficiale, risulta trattarsi di una serie di brevi racconti a lieto fine. Considerata da un’altra prospettiva, l’opera si rivela come un insieme di pratiche psicologiche rivestite di una forma letteraria. Tutto il libro è scritto in prima persona, anche se è necessario chiarire che tale “prima persona” non è quella dell’autore, come sempre succede nelle opere di narrativa, bensì quella del lettore. Ogni racconto possiede, infatti, un’ambientazione specifica che funziona come una sorta di cornice all’interno della quale il lettore colloca una scena in cui compaiono i propri contenuti e lui stesso. Quest’operazione è facilitata dalla presenza, nel testo, di asterischi che, indicando delle pause nella lettura, permettono di introdurre mentalmente le immagini personali; in tal modo un osservatore passivo si trasforma in attore e coautore delle diverse storie. Quest’originale forma letteraria permette un lavoro di gruppo: mentre una persona legge ad alta voce il testo (evidenziando le pause di cui dicevamo), le altre ascoltano ed immaginano il proprio “nodo” letterario. Un simile procedimento, che costituisce l’aspetto più caratteristico di quest’opera, se venisse utilizzato in testi più convenzionali, distruggerebbe la sequenza narrativa. C’è anche da sottolineare che in genere il lettore di opere letterarie o lo spettatore di rappresentazioni teatrali, filmiche o televisive, pur identificandosi in modo più o meno completo con i personaggi, è sempre in grado di distinguere, sul momento o successivamente, tra l’attore che appare “dentro” la scena e l’osservatore che ne resta “fuori”, e che altri non è se non lui stesso. In questo libro succede il contrario: il personaggio principale è l’osservatore che diventa agente e paziente di azioni ed emozioni.
Conferenza dell'Autore
Conferenza data presso l'Ateneo di Madrid, Spagna il 3 Marzo 1989
Il 2 maggio 1916, proprio qui a Madrid, e in questo stesso Ateneo, Ortega presentò Bergson. In quell’occasione spiegò come questa società, l’Ateneo, fosse un’istituzione in cui le idee venivano coltivate ed erano oggetto, per così dire, di culto. Poiché concordiamo con quel punto di vista, parleremo qui, nell’Ateneo, non di letteratura come sembrerebbe suggerire il carattere del libro che presentiamo, non di racconti o narrazioni (che pure costituiscono il materiale di questo lavoro) ma delle idee da cui tali racconti e narrazioni derivano.
Ovviamente non stiamo dicendo che quando si affronta un tema letterario si debba prescindere dalle idee ma che in quel caso è normalmente il punto di vista estetico a prevalere.
Quando si presenta un’opera, spesso se ne esaminano gli aspetti formali oltre che il contenuto. In altre occasioni, l’autore scava nel suo vissuto avvicinandoci così alla sua storia, alla sua sensibilità e alla sua percezione del mondo. In che senso, allora, qui parleremo di idee? Lo faremo mettendo in chiaro come quest’opera sia l’applicazione pratica di una teoria della coscienza in cui l’immagine, in quanto fenomeno di rappresentazione, assume una speciale rilevanza. E’ evidente, però, che prima di entrare in tema dovremo dare numerose spiegazioni, utili soprattutto a chi non abbia letto il libro che oggi presentiamo; ma di sicuro questo non nuocerà alla trasmissione della struttura di idee e della teoria cui abbiamo appena fatto riferimento.
Vediamo innanzitutto quali dati introduttivi possono essere forniti su questo lavoro.
Il libro è stato scritto nel lontano 1980, rivisto nel 1988 e sottoposto alla vostra considerazione da pochissimi giorni; a questo punto vorrei leggervi quel che ne ha scritto il curatore: “Il libro è diviso in due parti. La prima, che comprende dodici racconti ed ha per titolo Narrazioni, contiene il materiale più denso e complesso dell’opera. La seconda, intitolata Giochi di immagini, consta di nove descrizioni più semplici. Questi scritti possono essere valutati in modo diverso a seconda del punto di vista utilizzato. Ad un approccio superficiale, risulta trattarsi di una serie di brevi racconti a lieto fine. Considerata da un’altra prospettiva, l’opera si rivela come un insieme di pratiche psicologiche rivestite di una forma letteraria. Tutto il libro è scritto in prima persona, anche se è necessario chiarire che tale “prima persona” non è quella dell’autore, come sempre succede nelle opere di narrativa, bensì quella del lettore. Ogni racconto possiede, infatti, un’ambientazione specifica che funziona come una sorta di cornice all’interno della quale il lettore colloca una scena in cui compaiono i propri contenuti e lui stesso. Quest’operazione è facilitata dalla presenza, nel testo, di asterischi che, indicando delle pause nella lettura, permettono di introdurre mentalmente le immagini personali; in tal modo un osservatore passivo si trasforma in attore e coautore delle diverse storie. Quest’originale forma letteraria permette un lavoro di gruppo: mentre una persona legge ad alta voce il testo (evidenziando le pause di cui dicevamo), le altre ascoltano ed immaginano il proprio “nodo” letterario. Un simile procedimento, che costituisce l’aspetto più caratteristico di quest’opera, se venisse utilizzato in testi più convenzionali, distruggerebbe la sequenza narrativa. C’è anche da sottolineare che in genere il lettore di opere letterarie o lo spettatore di rappresentazioni teatrali, filmiche o televisive, pur identificandosi in modo più o meno completo con i personaggi, è sempre in grado di distinguere, sul momento o successivamente, tra l’attore che appare “dentro” la scena e l’osservatore che ne resta “fuori”, e che altri non è se non lui stesso. In questo libro succede il contrario: il personaggio principale è l’osservatore che diventa agente e paziente di azioni ed emozioni. Che queste Esperienze guidate risultino o no di nostro gradimento, dovremo per lo meno riconoscere di trovarci in presenza di un’operazione letteraria innovativa; e questo, indubbiamente, non capita tutti i giorni.”
Così si conclude la nota introduttiva.
Bene, come si è già detto, si tratta di brevi racconti dove alcuni asterischi permettono di interrompere la sequenza narrativa dando così al lettore la possibilità di collocare, proprio in quel punto, l’immagine che gli sembri adeguata. Quindi il racconto assorbe il nuovo elemento che vi è stato introdotto e lo dinamizza in modo che la sequenza narrativa possa continuare a svilupparsi. Vediamo un caso che ci serva da esempio. Prendiamo il primo racconto intitolato "Il bambino".
“Mi trovo in un luna-park. E’ sera. Dappertutto vi sono giochi meccanici pieni di luce e movimento... però non c’è nessuno. Poi scorgo accanto a me un ragazzino di una decina d’anni. Mi volge le spalle. Mi avvicino e, quando si volta a guardarmi, mi accorgo che sono io stesso quando ero bambino.” Asterisco! Cioè interruzione, per introdurre me stesso, come immagine, secondo il suggerimento del testo. La storia prosegue... “ Gli domando che cosa faccia lì e mi dice qualcosa che ha a che vedere con un’ingiustizia che gli hanno fatto. Scoppia a piangere ed io lo consolo, promettendogli di portarlo sulle giostre. Insiste a parlarmi di quell’ingiustizia. Allora, per riuscire a capirlo, provo a ricordare quale fu l’ingiustizia da me subita a quell’età.” Asterisco!
A questo punto, il meccanismo di lettura delle Esperienze guidate dovrebbe risultare chiaro. C’è poi da dire che i racconti si rifanno tutti ad un unico schema strutturale. All’inizio appare l’entrata nel tema e l’ambientazione generale; segue un aumento della tensione, per così dire, ‘drammatica’; in terzo luogo troviamo la rappresentazione di una situazione esistenziale problematica; in quarto luogo, lo sciogliersi del nodo e la corrispondente soluzione del problema; in quinto luogo, la diminuzione della tensione generale e, per ultimo, l’uscita non brusca dall’esperienza, generalmente ripercorrendo alcune tappe del racconto toccate in precedenza.
Dobbiamo ora aggiungere alcune considerazioni riguardo alla struttura della cornice che racchiude la situazione, cioè riguardo al contesto dell’esperienza. Se vogliamo che il lettore prenda contatto con se stesso, dobbiamo deformare la struttura del tempo e dello spazio, seguendo, su questo punto, l’insegnamento che ci viene dai sogni. Dobbiamo dare libero corso alla dinamica delle immagini ed eliminare le razionalizzazioni che ne impediscano un fluido sviluppo. Se poi riusciremo a destabilizzare la sensazione del corpo, la posizione del corpo nello spazio, creeremo le condizioni adatte perché il lettore possa porsi delle domande che riguardano un qualsiasi momento della sua vita passata quando non, addirittura, momenti futuri intesi come possibilità di compiere determinate azioni. Vediamo un esempio che illustri quanto stiamo esponendo. Ci serviremo dell’esperienza intitolata “L’azione che salva”.
“Percorriamo velocemente una grande strada. Accanto a me, guida una persona che non ho mai visto prima. Sui sedili posteriori, due donne e un uomo, anche loro sconosciuti. L’auto corre circondata da altri veicoli che procedono senza alcuna prudenza, come se i loro autisti fossero ubriachi o pazzi. Non sono sicuro se stia facendo giorno o se stia per calare la sera. Domando al mio compagno che cosa stia succedendo. Mi guarda furtivamente e risponde in una strana lingua: ‘Rex voluntas!’. Accendo la radio che gracchia emettendo forti rumori di interferenze elettriche. Riesco comunque a sentire una voce debole e metallica che ripete con monotonia: ‘...rex voluntas...rex voluntas...rex voluntas...’. Mentre la corsa dei veicoli rallenta, scorgo ai margini della strada un gran numero di auto ribaltate e un incendio che si propaga in mezzo ad esse. Ci fermiamo e abbandoniamo tutti la macchina, correndo verso i campi fra un mare di gente che si spinge impaurita. Guardo indietro e vedo in mezzo al fumo e alle fiamme molti poveretti rimasti prigionieri in quella trappola mortale, però sono costretto a correre da quella valanga umana che mi sospinge trascinandomi via. In questo delirio tento inutilmente di raggiungere una donna che protegge il suo bambino, mentre la folla le passa sopra e molti cadono a terra. Mentre il disordine e la violenza sono ormai generali, decido di muovermi in una direzione leggermente in diagonale, che mi permetta di separarmi dalla massa. Punto verso un luogo più in alto, che costringa quegli esseri impazziti a frenare la loro corsa. Molti, prossimi a svenire, mi si attaccano ai vestiti riducendoli a brandelli. Vedo che la densità della folla diminuisce. Allora, un uomo si stacca dalla massa e viene di corsa verso di me. Ha gli abiti stracciati ed è coperto di ferite. Quando mi raggiunge, mi afferra per un braccio e, gridando come un pazzo, mi indica in basso. Non capisco la sua lingua ma credo che voglia il mio aiuto per salvare qualcuno. Gli dico di aspettare, perché in questo momento è impossibile... So che non mi capisce. La sua disperazione mi sconvolge. L’uomo cerca allora di tornare indietro ma io, con uno spintone, lo faccio cadere in avanti. Rimane a terra, gemendo amaramente. Capisco di avergli salvato la vita e anche la coscienza, perché lui aveva cercato di salvare qualcuno ma glielo avevano impedito. Salgo un poco più su e arrivo a un campo coltivato. La terra è molle e solcata dal recente passaggio di un trattore. Sento in lontananza colpi di armi da fuoco e credo di capire cosa stia succedendo. Mi allontano in fretta da quel luogo. Dopo un certo tempo mi fermo. Tutto tace. Guardo verso la città e vedo un bagliore sinistro. Comincio a sentire che la terra oscilla sotto i miei piedi e un boato che sale dalle profondità della terra mi avverte dell’imminenza di un terremoto. Poco dopo perdo l’equilibrio. Resto a terra raggomitolato su un fianco ma con lo sguardo rivolto verso il cielo, in preda ad una forte nausea. Le scosse sono cessate. In cielo c’è una luna enorme, che sembra coperta di sangue. Fa un caldo insopportabile e respiro un’aria acre. Intanto continuo a non capire se stia iniziando il giorno o stia calando la sera... Mi metto seduto e sento un rimbombo sempre più forte. Subito dopo, oscurando il cielo, passano centinaia di aerei, simili a insetti mortiferi che si perdono verso un ignoto destino. Scorgo accanto a me un grosso cane che, guardando la luna, si mette a ululare, alla maniera di un lupo. Lo chiamo. L’animale mi si avvicina timidamente. Mi viene accanto. Gli accarezzo a lungo il pelo irto. Noto che il suo corpo è scosso da un tremore intermittente. Il cane si scosta da me e si allontana. Mi alzo in piedi e lo seguo. Percorriamo così un tratto sassoso fino ad arrivare a un ruscello. L’animale, assetato, si lancia in avanti e comincia a bere con avidità, ma di lì a poco indietreggia e cade. Mi avvicino, lo tocco e mi accorgo che è morto. Avverto un nuovo movimento sismico che minaccia di travolgermi, ma si tratta di una scossa passeggera. Mi giro e vedo nel cielo, in lontananza, quattro formazioni di nubi che avanzano con un sordo rimbombare di tuoni. La prima è bianca, la seconda è rossa, la terza nera e la quarta gialla. E queste nubi somigliano a quattro cavalieri armati che, montati su cavalcature di tempesta, percorrano i cieli distruggendo ogni segno di vita sulla terra. Corro nel tentativo di sfuggire alle nubi. Mi rendo conto che se la pioggia mi raggiungerà rimarrò contaminato. Continuo a correre ma, all’improvviso, si erge davanti a me una figura colossale. E’ un gigante che mi sbarra la via. Agita minaccioso una spada di fuoco. Gli grido che debbo andare avanti perché le nubi radioattive si stanno avvicinando. Risponde che è un robot messo lì apposta per impedire il passaggio alle persone distruttive. Aggiunge che è armato di raggi e mi intima di non avvicinarmi. Vedo che il colosso separa nettamente due spazi: quello da cui provengo, sassoso e morente, da un altro pieno di vegetazione e di vita. Allora grido: ‘Devi farmi passare perché ho fatto una buona azione!’. ‘Che cos’è una buona azione?’, domanda il robot. ‘E’ un’azione che costruisce, che collabora con la vita’, rispondo. ‘E dunque’, soggiunge, ‘che hai fatto di buono?’. ‘Ho salvato un essere umano da morte sicura e, per di più, ho salvato la sua coscienza’. Subito il gigante si fa da parte e io salto su quel terreno protetto, proprio mentre cominciano a cadere le prime gocce di pioggia...”
Questo il racconto. In una nota appare il seguente commento: “L’effetto straniante dell’argomento è stato ottenuto dando risalto all’indefinitezza del tempo (‘Non sono sicuro se stia facendo giorno o se stia per calare la sera’); mettendo a confronto spazi diversi (‘Vedo che il colosso separa nettamente due spazi: quello da cui provengo, sassoso e morente, da un altro pieno di vegetazione e di vita’); tagliando la possibilità di connessione con altre persone o creando una babelica confusione di lingue (‘Domando al mio compagno che cosa stia succedendo. Mi guarda furtivamente e risponde in una strana lingua: ‘Rex voluntas!’’). Infine, lasciando il protagonista in balia di forze incontrollabili (caldo, terremoti, strani fenomeni astronomici, acque inquinate, clima di guerra, gigante armato ecc.).” Il corpo del soggetto è destabilizzato più e più volte: spintoni, spostamenti su un terreno morbido appena arato, cadute provocate dal sisma.
Lo schema di ambientazione appena descritto si ripete in molte esperienze, utilizzando però immagini diverse e ponendo in risalto il particolare nodo che si intende trattare. Per esempio, nell’esperienza chiamata “Il grande errore” tutto ruota intorno ad una specie di malinteso, che viene affrontato utilizzando la confusione delle prospettive. In questo caso, poiché si tratta di trasformare un fatto passato, un fatto della nostra vita che vorremmo si fosse svolto in altro modo, è necessario indurre alterazioni temporali e spaziali che dopo aver modificato la nostra percezione dei fenomeni arrivino a modificare anche la prospettiva con cui guardiamo al nostro passato. Si tratta dunque di trasformare non già i fatti accaduti bensì il punto di vista su di essi, nel qual caso tali contenuti risulteranno molto più facilmente integrabili. Vediamo una parte di questo racconto.
“Sono in piedi davanti a una specie di tribunale. La sala, gremita di pubblico, è immersa nel silenzio. Vedo dovunque volti severi. Rompendo la tremenda tensione che si è accumulata tra i presenti, il Segretario, aggiustandosi gli occhiali, prende un foglio di carta e annuncia solennemente: ‘Questo tribunale condanna l’imputato alla pena di morte’. Subito si leva uno schiamazzo. Chi applaude, chi disapprova. Riesco a vedere una donna che cade svenuta. Poi un funzionario riesce a imporre il silenzio. Il Segretario mi fissa torvo, mentre mi domanda: ‘Ha qualcosa da dire?’. Gli rispondo di sì. Allora tutti si rimettono a sedere. Subito dopo chiedo un bicchiere d’acqua e, passata una certa agitazione nella sala, qualcuno me lo porge. Lo porto alle labbra e bevo un sorso. Concludo l’azione con un sonoro e prolungato gargarismo. Poi dico: ‘Ecco fatto!’. Uno del tribunale mi redarguisce aspramente: ‘Come sarebbe a dire, ecco fatto?’. Gli rispondo che è così, ecco fatto. In ogni modo, per farlo contento, gli dico che l’acqua del luogo è molto buona, chi l’avrebbe mai detto, e due o tre cosette gentili di questo tipo... Il Segretario finisce di leggere il foglio di carta con queste parole: ‘... Di conseguenza, la sentenza verrà eseguita oggi stesso, lasciandolo in pieno deserto senza cibo né acqua. Soprattutto senza acqua. Ho detto!’. Gli rispondo con forza: ‘Come sarebbe a dire, ho detto?’. Inarcando le sopracciglia, il Segretario afferma: ‘Quello che ho detto ho detto!’. Di lì a poco mi ritrovo nel deserto su un mezzo di trasporto, scortato da due pompieri. A un certo punto ci fermiamo e uno di loro mi fa: ‘Scenda!’. Io scendo. Il mezzo gira e ritorna da dove era venuto. Lo vedo rimpicciolirsi sempre di più, a mano a mano che si allontana tra le dune.”
Nel racconto ci sono poi alcuni incidenti e, finalmente, accade questo: “La tempesta è passata, il sole è tramontato. Nel crepuscolo scorgo davanti a me un emisfero biancastro, grande come un edificio di vari piani. Pur pensando che possa trattarsi di un miraggio, mi alzo e mi dirigo da quella parte. A brevissima distanza mi accorgo che la struttura è fatta di materiale chiaro, come una plastica rilucente, forse piena di aria compressa. Mi riceve un tale vestito secondo l’usanza beduina. Entriamo in un tubo rivestito di tappeti. Scorre un pannello metallico e subito mi investe un’aria fresca. Siamo all’interno della struttura. Vedo che tutto è alla rovescia. Si direbbe che il soffitto sia un pavimento piano, dal quale pendono diversi oggetti: tavoli rotondi con le zampe all’aria, acqua che cadendo in zampilli si incurva e risale e forme umane sedute in alto. Accorgendosi del mio stupore il beduino mi porge un paio di occhiali e mi dice: ‘Se li metta!’. Obbedisco e si ristabilisce la normalità. Di fronte a me vedo una grande fontana che emette getti d’acqua verticali. Ci sono dei tavoli e vari oggetti, squisitamente combinati tra loro nei colori e nelle forme. Il Segretario mi si accosta camminando a quattro zampe. Dice di sentirsi orribilmente male di stomaco. Gli spiego che sta vedendo la realtà alla rovescia e che deve togliersi gli occhiali. Se li toglie, si alza in piedi sospirando e dice: ‘Effettivamente ora è tutto a posto, solo che ho la vista corta’. Poi aggiunge che mi stava cercando per spiegarmi che non sono la persona che doveva essere giudicata, che c’è stata una deplorevole confusione. Quindi, tutto a un tratto, esce da una porta laterale. Faccio alcuni passi e vengo a trovarmi con un gruppo di persone sedute in cerchio su grossi cuscini. Sono anziani di ambo i sessi, con caratteristiche razziali e indumenti diversi. Hanno tutti dei bei visi. Ogni volta che uno di loro apre la bocca, ne escono suoni che sembrano di ingranaggi lontani, di macchine gigantesche, di immensi orologi. Ma posso anche sentire il rombo di tuoni intermittenti, lo scricchiolio dei massi, il distacco dei blocchi di ghiaccio, il ritmico ruggito dei vulcani, il breve impatto della pioggia gentile, il sordo agitarsi dei cuori; il motore, il muscolo, la vita... ma tutto questo armonizzato e perfetto, come in un’orchestra di magistrale talento. Il beduino mi porge degli auricolari dicendo: ‘Se li metta. C’è la traduzione’. Io me li metto e sento con chiarezza una voce umana. Mi rendo conto che si tratta della stessa sinfonia di uno di quei vecchi, tradotta per il mio maldestro udito. Adesso, mentre lui apre la bocca, io posso ascoltare: ‘Siamo le ore, siamo i minuti, siamo i secondi, siamo le diverse forme del tempo. Poiché con te è stato commesso un errore, ti daremo l’opportunità di ricominciare di nuovo la tua vita. Da dove vuoi ricominciarla? Forse dal momento della nascita... forse da un istante prima del tuo primo fallimento. Pensaci sù.” Asterisco! Eccetera, eccetera. A questo punto è necessario fare alcune considerazioni riguardo al tipo di immagini usate nei racconti, poiché si potrebbe essere indotti a credere che le descrizioni si basino soprattutto sulla componente visiva quando è noto che buona parte della popolazione si rifà abitualmente ad un tipo di rappresentazione che è invece uditiva, cinestetica o cenestesica - in ogni caso mista. A questo proposito vorrei leggere alcuni paragrafi tratti da una delle mie opere più recenti, Psicologia dell’immagine: “Gli psicologi di tutti i tempi hanno elaborato lunghe liste sulle sensazioni e sulle percezioni e, al giorno d’oggi, con la scoperta di nuovi recettori nervosi, si parla anche di termorecettori, barorecettori, recettori dell’acidità e dell’alcalinità interna, ecc. Al novero delle sensazioni corrispondenti ai sensi esterni noi aggiungiamo le sensazioni che corrispondono a sensi diffusi, come le cinestetiche (movimento e posizione corporea) e le cenestesiche (vissuto generale dell’intracorpo, della temperatura, del dolore, ecc., sensazioni che, seppur spiegate in termini di sensi tattili interni, non possono essere ridotte ad essi).
Per il nostro livello di spiegazione sono sufficienti questi brevi cenni con i quali certo non pretendiamo di esaurire il tema dei possibili vissuti relativi ai sensi esterni e interni e alle molteplici combinazioni percettive tra gli uni e gli altri. Ci interessa, piuttosto, stabilire un parallelismo tra rappresentazioni e percezioni, classificate in modo generico come ‘interne’ o ‘esterne’. Sfortunatamente la rappresentazione è stata molto spesso limitata alle sole immagini visive e, allo stesso modo, la spazialità è stata quasi sempre riferita alla visione, quando invece anche le percezioni e le rappresentazioni uditive indicano la localizzazione - in qualche ‘luogo’ - delle sorgenti dello stimolo, e lo stesso vale per quelle tattili, gustative, olfattive e, ovviamente, per quelle che si riferiscono alla posizione del corpo e ai fenomeni dell’intracorpo. Già nel 1943 si era osservato in laboratorio che vari individui propendevano per immagini non visive ma d’altro genere. Ciò consentì a G. Walter, nel 1967, di formulare una classificazione in tipi immaginativi a diversa predominanza. Indipendentemente dalla validità di un simile approccio, cominciò a farsi strada fra gli psicologi l’idea che il riconoscimento del proprio corpo nello spazio, o il ricordo di un oggetto, molte volte non aveva come base l’immagine visiva. Inoltre si cominciò a considerare con più serietà il caso di soggetti perfettamente normali che descrivevano la loro ‘cecità’ rispetto alla rappresentazione visiva. Non si trattava più, a partire da queste prove, di considerare le immagini visive come il nucleo del sistema di rappresentazione, gettando le altre forme immaginative nella spazzatura della ‘disintegrazione eidetica’ o nel campo della letteratura dove ad idioti ed a ritardati mentali vengono fatte dire cose simili a quelle dette da uno dei personaggi de L’urlo e il furore di Faulkner: ‘Non potevo vederla con gli occhi ma la vedevo con le mani e potevo udire la notte che sopraggiungeva. Le mani vedevano la ciabatta, ma non potevo vederla con gli occhi. Mi accoccolai ascoltando calare le tenebre’”.
Se andiamo avanti nel nostro studio sulle Esperienze guidate, arriveremo alla conclusione che nonostante presentino una predominanza dell’aspetto visivo, esse si adattano a qualunque sistema di rappresentazione. Non mancano d’altra parte esperienze in cui risulta chiaro l’utilizzo di altri tipi di immagini. E’ questo il caso de “L’animale”, del quale ora leggerò qualche brano. “Mi trovo in un luogo completamente buio. Tastando con il piede, sento che il terreno è irregolare, cosparso di vegetazione e pietre. So che da qualche parte c’è un precipizio. Percepisco la stretta vicinanza di quell’animale che mi ha sempre provocato un’inconfondibile sensazione di ribrezzo e di terrore. Forse un animale soltanto, forse molti... quel che è certo è che qualcosa si sta avvicinando inesorabilmente. Un ronzio negli orecchi, a volte confuso con un vento lontano, contrasta con il silenzio totale. I miei occhi spalancati non vedono, il cuore batte convulsamente e, mentre il respiro è sottile come un filo, un sapore amaro mi chiude la gola. Qualcosa si avvicina... ma cosa c’è dietro di me che mi fa rizzare i capelli e mi gela la schiena come un blocco di ghiaccio? Le gambe mi tremano e se quel qualcosa mi assale o mi salta alle spalle non avrò alcuna difesa. Rimango immobile... aspetto soltanto.”
Vediamo ora un caso in cui siano presenti diversi tipi di immagini ed il passaggio da un sistema di rappresentazione ad un altro. Qui può esserci utile una parte dell’esperienza chiamata “Il festival”.
“Sono disteso su un letto, mi sembra di essere in una stanza d’ospedale. Sento appena il gocciolio di un rubinetto chiuso male. Provo a muovere le membra e la testa, ma non mi rispondono. A fatica riesco a tenere gli occhi aperti... Il soffitto è bianco e liscio, ma ogni goccia d’acqua che sento cadere scintilla sulla sua superficie come uno schizzo di luce. Una goccia, una riga. Poi, un’altra. E poi, molte linee. Quindi, ondulazioni. Il soffitto si va trasformando, seguendo il ritmo del mio cuore. Può darsi che sia un effetto delle arterie degli occhi, prodotto dal pulsare del sangue. Il ritmo disegna il volto di una persona giovane.” E più avanti, in questa stessa esperienza, si va oltre la percezione visiva che viene inclusa in un sistema di rappresentazione più complesso, nel quale appaiono altre percezioni e, pertanto, altre rappresentazioni. “Concentro l’attenzione su un fiore, attaccato al suo ramo da un sottile stelo di pellicola trasparente al cui interno si fa più intenso il verde rilucente. Allungo la mano, sfiorando delicatamente con un dito lo stelo lucente e fresco, appena interrotto da piccolissimi rigonfiamenti. Così, salendo tra foglie di smeraldo, raggiungo i petali che si aprono in una esplosione multicolore. Petali come vetrate di una solenne cattedrale, petali come rubini e come fuochi di legna destatisi in alta fiammata... E in questa danza di tonalità cromatiche sento il fiore vivere come se fosse parte di me. E il fiore, mosso dal mio contatto, lascia cadere una goccia di rugiada sonnolenta, appesa appena all’ultimo petalo. L’ovale della goccia vibra, poi si allunga e, ormai nel vuoto, si appiattisce per poi arrotondarsi di nuovo, cadendo in un tempo senza fine. Cadendo, cadendo nello spazio senza limite... Alla fine, urtando contro il cappello di un fungo, vi rotola sopra come pesante mercurio, per scivolare fino al bordo. Lì, in uno spasimo di libertà, si slancia verso una piccola pozza in cui solleva onde burrascose che bagnano un’isola di marmo... Lì davanti si sta svolgendo il festival e io so che la musica mi mette in comunicazione con quella ragazza che si guarda il vestito e con il giovane che, accarezzando un gatto azzurro, si appoggia all’albero. So di aver vissuto in precedenza la stessa cosa, di aver captato la sagoma rugosa dell’albero e le differenze di volume dei corpi... Nelle farfalle di velluto che mi volano intorno riconosco la qualità delle labbra e la fragilità dei sogni felici.” Eccetera.
Nelle esperienze, però, le immagini non si collocano solamente nello spazio che il soggetto ha davanti o intorno, ma anche nello spazio interno al soggetto stesso. Sarà qui opportuno ricordare che, in determinati sogni, il dormiente vede se stesso in scena fra altri oggetti, vale a dire che il suo sguardo è “esterno”. Ma a volte succede anche che colui che sogna veda la scena con i propri occhi, quasi fosse in stato di veglia; il suo sguardo diventa “interno”. Nella rappresentazione quotidiana, quella che possiamo sperimentare ora, vediamo le cose esterne come “esterne”, ossia il nostro sguardo si colloca “dietro” un limite cenestesico-tattile che è dato dalla sensazione degli occhi, del viso e della testa. Ora chiudo gli occhi e rappresento un oggetto che ho appena visto. Esperisco l’oggetto immaginato come se fosse “fuori”, quando in realtà lo sto guardando “dentro” il mio spazio di rappresentazione e non “fuori” come succede quando lo percepisco. Ad ogni modo, il mio sguardo è separato dall’oggetto: vedo l’oggetto fuori di me nonostante lo rappresenti, per così dire, “dentro la mia testa”.
Quando, nell’esperienza de “Il bambino”, vedo me stesso da piccolo, in realtà vedo il bambino a partire dal mio vissuto attuale nel quale mi riconosco. In altre parole, vedo il bambino fuori di me, vedo il bambino con il mio attuale sguardo interno. Orbene, il-bambino-che-sono-io-prima mi parla adesso di una ingiustizia che gli fu fatta; e, per sapere di che si tratta, faccio uno sforzo per ricordare (e lo fa il mio io attuale, non il bambino che vedo) quello che mi è successo quand’ero bambino (il-bambino-che-sono-io-prima). Al farlo, il mio sguardo va “dentro” di me, ai miei propri ricordi, ed il bambino che vedo sta fuori rispetto alla direzione della ricerca che porto avanti nei miei ricordi. Ma quando incontro me stesso in una scena infantile, grazie a che cosa mi riconosco veramente come io-stesso? Senza dubbio grazie ad uno sguardo esterno al me attuale, ma interno, nel caso che stiamo esaminando, al bambino del luna-park.
Tutto ciò pone interessanti quesiti; ma per appianare le difficoltà che questo tema presenta, diciamo che si può parlare di rappresentazioni che sembrano collocarsi “fuori” e di altre che sembrano collocarsi “dentro”, ricordando però che il “fuori” ed il “dentro” sono relativi al limite costituito dalle sensazioni cenestesico-tattili degli occhi, del viso e della testa. Una volta capito questo, possiamo prendere in esame alcuni esempi in cui compaiono collocazioni diverse degli sguardi e delle scene. Nell’esperienza chiamata “Lo spazzacamino”, si dice:
“Passato un certo tempo, lo spazzacamino si alza e prende un oggetto lungo, leggermente curvo. Si ferma davanti a me e dice: ‘Apra la bocca!’. Io obbedisco. Poi sento che introduce in me una specie di lunga pinza che mi arriva fino allo stomaco. Però mi accorgo che riesco a sopportarla... Tutt’a un tratto, grida: ‘L’ho preso!’ e comincia a estrarre l’oggetto, poco alla volta. All’inizio mi pare di sentirmi strappare qualcosa, ma poi sento prodursi in me una sensazione piacevole, come se dalle viscere e dai polmoni si andasse staccando un qualcosa che vi aderiva in maniera maligna da molto tempo.” Qui è chiaro che stiamo operando con vissuti cenestesici, cioè immagini dell’intracorpo; ma quando ciò che viene immaginato “fuori” (così come ciò che viene percepito “fuori” nella vita quotidiana) produce delle conseguenze nell’intracorpo, la scena e lo sguardo si modificano grazie al meccanismo che abbiamo osservato nel racconto de "Il bambino". Con la differenza che quanto viene immaginato “fuori” non costituisce un’immagine visiva (il bambino): “fuori”, infatti, ora colloco una specie di sensazione cenestesica - non in quanto io senta qualcosa al mio interno e quel sentire ora si trovi fuori del mio corpo, ma in quanto ciò che sento al mio interno è esterno al mio sguardo (o a una nuova sensazione cenestesica che diventi ancora più interna). Senza questo meccanismo che permette di cambiare la posizione e la prospettiva dello sguardo e della scena, numerosi fenomeni della vita quotidiana non sarebbero possibili. Come potrebbe un oggetto esterno generare ripugnanza in me per il solo fatto di guardarlo? Come potrei “sentire” orrore per una ferita inferta nella carne di un altro? Come potrei sentirmi solidale con il dolore umano e con la sofferenza o il piacere altrui?
Esaminiamo alcuni brani dell’esperienza intitolata “La coppia ideale”.
“Camminando in uno spazio aperto, destinato a esposizioni industriali, vedo capannoni e macchinari. Ci sono molti bambini ai quali sono destinati giocattoli meccanici di alta tecnologia. Mi avvicino a un gigante fatto di materiale solido. Sta in piedi. Ha una grossa testa dipinta a colori vivaci. Una scala arriva fino alla sua bocca. Sulla scala si arrampicano i piccoli fino all’enorme cavità e, quando uno entra, questa si chiude dolcemente. Di lì a poco il bambino viene espulso dalla parte posteriore del gigante e scivola lungo un ottovolante che termina sulla sabbia. A uno a uno entrano ed escono, accompagnati dalla musica che sgorga dal gigante: ‘Gargantua inghiotte i bambini con molta cautela, senza fargli male, oplà, oplà, con molta cautela, senza fargli male!’. Mi decido a salire per la scala ed entrando nell’enorme bocca trovo un portiere che mi dice: ‘I bambini scendono con l’ottovolante e i grandi con l’ascensore’. L’uomo continua a dare spiegazioni mentre scendiamo lungo un tubo trasparente. A un certo punto gli dico che dovremmo già essere a livello del suolo. Lui risponde che siamo appena nell’esofago, perché il resto del corpo si trova sottoterra, a differenza del gigante infantile che è tutto in superficie. ‘Proprio così, ci sono due Gargantua in uno’, mi informa. ‘Quello dei bambini e quello dei grandi. Siamo molti metri sotto il suolo... Abbiamo già passato il diaframma, presto arriveremo in un luogo molto simpatico. Guardi, ora si apre la porta del nostro ascensore, ci si presenta lo stomaco... vuole scendere qui? Come vede, è un ristorante moderno, dove vengono serviti piatti di ogni parte del mondo’.”
Il tema delle immagini “esterne” che agiscono sulla rappresentazione interna trova migliore espressione nell’esperienza de “Il minatore”. Sentiamo: “Grido con tutte le mie forze e il terreno cede trascinandomi nel suo smottamento... Un forte strattone alla cintura coincide con il repentino arresto della caduta. Rimango appeso alla corda come un assurdo pendolo di fango. La mia corsa si è fermata vicinissimo a un pavimento ricoperto da un tappeto. Vedo adesso, in quell’ambiente fortemente illuminato, un’elegante sala in cui distinguo una specie di laboratorio ed enormi librerie. Ma la situazione di urgenza in cui mi trovo mi spinge a cercare una soluzione. Con la mano sinistra sistemo la corda tesa e con l’altra apro la fibbia che la tiene fissata alla mia cintura. Cado dolcemente sul tappeto. ‘Che maniere, amico...! Che maniere!’, fa una voce flautata. Mi volto e resto di sasso. Ho davanti a me un omuncolo alto, sì e no, sessanta centimetri. A parte le orecchie leggermente puntute, si direbbe molto ben proporzionato. E’ vestito a vivaci colori ma con un inconfondibile stile da minatore. Mi sento ridicolo e desolato quando mi offre un drink. In ogni modo, mi faccio animo e lo bevo senza battere ciglio. L’omuncolo giunge le mani e le porta alla bocca a mo’ di megafono. Quindi emette il gemito che ben conosco. A questo punto monta in me un’enorme indignazione. Gli chiedo che cosa significhi una burla del genere e mi risponde che, grazie a essa, in futuro la mia digestione migliorerà. Il tipo continua dicendo che la corda stretta alla vita e all’addome durante la caduta ha fatto un ottimo lavoro; e così il percorso sui gomiti lungo il tunnel. Per concludere il suo strano discorso, mi chiede se per me ha qualche senso la frase: ‘Lei si trova nelle viscere della terra’. Rispondo che è un modo figurato di dire le cose, ma l’altro replica che in questo caso si tratta di una grande verità. E poi aggiunge: ‘Lei si trova nelle sue stesse viscere. Quando qualcosa va male nelle viscere, la gente pensa cose fuorvianti. A loro volta, i pensieri negativi pregiudicano le viscere. Cosicché, d’ora in avanti, lei starà attento. Se non lo farà, mi metterò a camminare e lei sentirà un gran solletico ed ogni genere di disturbi interni... Ho colleghi che si occupano di altre parti, come i polmoni, il cuore, eccetera’. Ciò detto, l’omuncolo prende a camminare sulle pareti e sul soffitto, mentre io avverto tensioni nella regione addominale, al fegato e ai reni. Poi, con una pompa d’oro mi getta addosso dell’acqua, ripulendomi scrupolosamente dal fango. Sono subito asciutto. Mi sdraio su un ampio divano e comincio a rilassarmi. L’omuncolo passa ritmicamente una spazzolina sul mio addome e sulla vita, producendomi un notevole senso di distensione in quelle zone. Mi rendo conto che, con l’alleviarsi dei malesseri allo stomaco, al fegato e ai reni, mutano le mie idee e i miei sentimenti. Percepisco una vibrazione e avverto che mi sto sollevando. Sono sul montacarichi che risale verso la superficie della terra”.
In questa esperienza, l’omino risulta essere un vero esperto nella teoria dell’immagine cenestesica. Purtroppo non ci ha spiegato come un’immagine possa entrare in connessione con l’intracorpo ed agire su di esso. Abbiamo appena visto, pur con qualche difficoltà, come la percezione degli oggetti esterni serva da base all’elaborazione di un’immagine, e come questa ci permetta di presentare nuovamente ciò che si era precedentemente presentato ai sensi. Abbiamo anche visto come, nella rappresentazione, la collocazione e la prospettiva dello “sguardo” dell’osservatore rispetto a una data scena possano cambiare; ci siamo anche interrogati sulla connessione fra la percezione di un oggetto sgradevole e le nostre reazioni interne. Ora stiamo discutendo delle sensazioni dell’intracorpo che servono da base a rappresentazioni anch’esse “interne”. Dunque ci troviamo pieni di domande per le quali non abbiamo risposte esaurienti, ed ho il timore che purtroppo il nostro discorso dovrà rimanere incompleto. Vorrei, ad ogni modo, aggiungere alcune considerazioni.
Finché si continuerà a considerare l’immagine come una semplice copia della percezione, finché si continuerà a credere che la coscienza in generale abbia un atteggiamento passivo nei confronti del mondo e risponda ad esso per riflesso, non potremo rispondere né alle domande precedenti né ad altre, in verità fondamentali.
Per noi l’immagine è un modo attivo di porsi, da parte della coscienza (come struttura) nel-mondo. La coscienza può agire sul corpo e sul corpo nel-mondo, grazie all’intenzionalità che sempre appunta al di fuori di sé, e che non risponde semplicemente ad un per sé o ad un in sé naturale, riflesso e meccanico. L’immagine agisce in una struttura spazio-temporale ed in una “spazialità” interna che chiamiamo appunto “spazio di rappresentazione”. Le diverse e complesse funzioni espletate dall’immagine dipendono, in generale, dalla posizione che essa assume in tale spazialità. La piena giustificazione di quanto stiamo affermando si trova nella nostra teoria della coscienza che è spiegata nel lavoro Psicologia dell’immagine al quale rimandiamo. Ma se, attraverso questi “divertimenti letterari” come li chiama il nostro curatore, se attraverso queste narrazioni o racconti, siamo riusciti a mostrare le applicazioni pratiche di una concezione più ampia, allora non siamo venuti meno alla promessa, fatta all’inizio della nostra spiegazione, che ci saremmo occupati di questo scritto, Esperienze guidate, non dal punto di vista letterario ma da quello delle idee da cui esso deriva.
Questo è tutto, molte grazie.
Edizione originale
Experiencias Guiadas viene pubblicato in Argentina per la prima volta nel 1989. E' pubblicato in inglese da Latitude Press, in francese da Edition Références, in portoghese da...
Traduzioni
Il libro è tradotto in catalano, ceco, ebraico, finlandese, francese, inglese, islandese, italiano, olandese, portoghese, russo, tedesco, ungherese.
Edizioni italiane
Il libro ha avuto una edizione a cura di [Edicril] nel ..., e tre edizioni, a partire dal 1997, a cura della Multimage inclusa l'ultima del 2006; in queste edizioni si conta anche quella delle Opere Complete, Vol. I